Arte
L’ARTE CONTEMPORANEA COME UN INCIDENTE
Cosa succede quando l’arte contemporanea incrocia, più o meno violentemente, la vita vera, la vita “seria”, la quotidianità di quel buon 80% degli italiani che la considerano – come del resto la cultura contemporanea in generale – un divertissement nel migliore dei casi, o un inutile, costoso orpello nei peggiori?
La domanda emerge ciclica, ad esempio quando nell’isola felice dell’Emilia-Romagna, a ridosso delle feste natalizie, tra Bologna e Modena accadono due fatti.
Il primo è che il 13 dicembre scorso, nei cieli del Capoluogo emiliano, non a caso sopra il ponte di Via Matteotti, accanto alla Stazione Centrale – quella stazione che nel 1980 saltò in aria per un attentato terroristico che uccise 85 persone e ne ferì 200 – appaiono “strane” luminarie natalizie. Un triangolo, un occhio, dei raggi di luce, che se visti attraverso due punti prospettici restituiscono il simbolo della Provvidenza, oggi generalmente associato alla massoneria. Non a caso, fu proprio Licio Gelli nel 1995 ad essere condannato per depistaggio alle indagini sull’“orrenda strage”, insieme ad altri amici del SISME, tutti affiliati alla loggia massonica dell’allora Maestro Venerabile. Le vittime, i loro parenti e teoricamente l’Italia tutta stanno ancora aspettando la verità sui mandanti, per molti sempre riconducibili al progetto eversivo della P2 e alla strategia della tensione neofascista degli anni Settanta. Ma è immediata l’indignazione della bolognesità, che fonda subito un gruppo facebook “via la P2 dai cieli di Bologna”, come se ci trovassimo davanti ad un’apologia del reato, ad una caduta di stile qualsiasi o ad una nuova infiltrazione massonica per le vie della città.
Non dovrebbe essere necessario dire (o forse è utile continuare a farlo instancabilmente?) che il tutto non è casuale, ma che si tratta di un’opera d’arte di Luca Vitone, “Souvenir d’Italie”, sostenuta dal Comune di Bologna nell’ambito delle attività di ON, progetto d’arte contemporanea attivo dal 2007 a livello locale e nazionale. Un’opera che, ben al di là della propria estetica, si assume la responsabilità di riattivare – in uno spazio preciso, in un tempo anomalo, con un linguaggio inedito – la memoria storica della città, un grido notturno e silenzioso più potente di molte altre forme di rivendicazione del diritto dei bolognesi a sapere ed avere giustizia. Un “errore di sistema” – come l’ha felicemente definito un lettore di un blogger bolognese – nei percorsi rassicuranti dello shopping natalizio e nelle lucine tradizionali che addobbano il resto della città. Il miglior errore, che solo per il fatto di aver aperto squarci e riflessioni – e sacrosante discussioni – tra chi è disposto a tenere la mente allenata anche sotto le feste e chi della strage della stazione di Bologna non vuole avere o non può avere ricordo, ha raggiunto il proprio obiettivo più profondo.
A pochi chilometri di distanza, due giorni dopo, Gian Carlo Muzzarelli, Sindaco di Modena, durante una conferenza stampa comunica di aver deciso (senza consultarsi con gli aventi diritto) che la Palazzina dei Giardini Ducali – dal 1983 sede della Galleria Civica di Modena, magistralmente diretta negli ultimi anni da Marco Pierini –, durante i sei mesi Expo 2015 diventerà il “Villaggio del Gusto”, vetrina dei prodotti agroalimentari del territorio, come da richiesta dei Consorzi dei produttori riuniti. Ne conseguono le dimissioni immediate di Pierini, che perentoriamente non ritiene “nella maniera più assoluta, che un museo possa perdere, sia pure temporaneamente una sua sede e accettare che venga destinata a scopi non compatibili con la sua missione”; il Sindaco che rivendica di poter disporre della Palazzina perché è a tutti gli effetti della comunità modenese; la comunità modenese (un’altra, evidentemente) che lancia una petizione per far ricredere l’Amministrazione, optando per il riuso di altri spazi. Probabilmente hanno considerato di poco valore che l’Istituzione culturale nel dicembre 2014 avesse come ovvio già pianificato le attività del 2015; che all’Expo manchino pochi mesi e che qualsiasi opzione alternativa andasse valutata e definita con maggior anticipo; che di questo fatto increscioso nelle modalità, prima ancora che nella sostanza – ma a volte le cose coincidono – se ne parli anche a livello internazionale, ad esempio sul Guardian, citando il dubbio lecito di Pierini per cui si stia badando più alla moda del turista consumatore che alla prospettiva del cittadino consapevole.
Volendo andare oltre la cronaca, di cui ci si può saziare sul web grazie ai rilanci più o meno densi delle varie fazioni, da alcuni giorni cerco di capire cosa abbiano in comune i due episodi. La risposta sembra essere proprio che quando l’arte contemporanea adempie coerentemente al proprio mestiere (perché sì, è un mestiere) ed entra con pregnanza nelle trame urbane, nelle mappe cognitive delle persone, per-turbandole e rilanciando lo sguardo su visioni prospettiche e non di corto raggio, ecco – proprio nel momento in cui esprime il senso della propria contemporaneità, di interpretazione e critica del tempo presente – in quei momenti il banco salti e si assista a teatrini scomposti che ora, loro malgrado, enfatizzano la stessa azione artistica, ora finiscono grottescamente per demolirla. Perché sono pochi i casi in cui chi ha promosso e sostenuto un’iniziativa di questo tipo riesce a tenere la barra dritta. E poi, a quale prezzo?
In fondo, gli artisti che “fanno colore” e location (come già ben evidenziato da Claudio Franzoni) e i musei che possono essere presi, spostati, riempiti dalla politica secondo necessità, sono più pratici e rassicuranti e sotto Natale dobbiamo essere tutti più buoni. Davanti all’operatore culturale che si ostina a rivendicare rispetto e autonomia, scatta lo spiazzamento – dove non la crisi di nervi – dei molti che proprio non contemplano questa possibilità. Sono certa che il Sindaco di Modena non avesse davvero idea, in cuor suo, che Pierini avrebbe alzato la testa. E forse è proprio questo il punto della questione: non ammettere che la cultura possa intervenire e/o interferire nei processi di sviluppo, al di fuori delle quattro mura in cui storicamente è confinata. Così come altrettanti stimabili cittadini e professionisti non ammettono di poter essere disorientati da una luminaria-che non è una luminaria-ma sembra una luminaria-allora non so codificarla (e quindi derubricarla) come arte-e allora è colpa del Comune che non mi spiega che è arte-e comunque è arte “di cattivo gusto” che non difende le mie comode certezze che il due agosto si celebra il due agosto-allora Ronchi e Merola mettevele a casa vostra.
Il banco salta quando l’arte finisce più o meno accidentalmente fuori dai meccanismi e dai flussi nei quali da troppi anni è (e si è) rinchiusa. Càpita che questi incidenti, questi errori di sistema, comincino ad essere frequenti. Bene. Perché l’arte, come le culture contemporanee tutte, servono proprio a far saltare i banchi dell’abitudine e della normalizzazione, rilanciando il pensiero laterale, la coscienza critica, esplodendo in migliaia di frammenti interrelati e incontrollabili, pena l’invalidamento del potenziale artistico stesso. Che trova spazio solo dove c’è qualcuno che ha il coraggio di difenderne strenuamente la libertà intellettuale e il portato sociale, prima del gusto.
La libertà dovuta all’operatore culturale (senza entrare volutamente nel merito dei diversi ruoli e professionalità oggi essenziali per l’equilibrio dell’ecosistema culturale) ha a sua volta un dovere: quello di uscire dalle gabbie dorate dell’autoreferenzialità ed essere all’altezza di stare dentro la vita vera, ed insistere. Avere le mani sporche abbastanza dallo stare in strada a intercettare e stimolare quell’80% di persone che non si espone consapevolmente a un’esperienza culturale, e insieme le spalle larghe per partecipare ai tavoli di lavoro (quelli che vengono prima delle decisioni, non dopo) contribuendo con azioni concrete allo sviluppo di un territorio e alla crescita della comunità che lo abita o di chi vi passa anche solo per caso – perché è venuto a vedere l’Expo e a fare shopping, ma potrebbe rapidamente non poterne più né dell’uno né dell’altro. Significa, almeno nell’oggi, combattere ogni giorno e con tutti i mezzi una battaglia culturale che ha come unico obiettivo approfondire la capacità critica delle persone, prescindendo da quale sarà l’orientamento di tale critica. Significa avere peso e credibilità per rivendicare sempre e comunque pensieri di merito, anche davanti all’occasione più leggera, anche tra una lucina natalizia e uno zampone rigorosamente IGP.
La politica, in tutto questo e prima ancora del proprio colore, dovrebbe avere a cuore la crescita intellettuale della propria comunità di riferimento, cui tutto consegue. E di conseguenza, dovrebbe saper esprimere a monte degli indirizzi in tal senso e monitorare a valle che trovino concretezza e tutela. A Bologna sta succedendo, con un Assessorato alla Cultura che non arretra (ma di nuovo, a che prezzo?) e fino a prova contraria “Souvenir d’Italie” è lì, bellissima e accesa sopra i cieli di Bologna, dove c’è anche qualcuno che già si augura che rimanga in modo permanente. Non si può dire lo stesso di Modena, dove nonostante la “resistenza” che si è stretta attorno a Pierini da parte di molta società civile, non si intravedono segni rassicuranti – e intanto sul sito della Galleria Civica non ci sono più informazioni sulle prossime mostre.
Forse è troppo aspettarsi un fronte comune, anche solo lungo la via Emilia. È troppo quando a livello nazionale, nonostante il cambiamento-di-verso e varie disposizioni del Ministro Franceschini (alcune invero meritevoli), non è ancora chiaro quale indirizzo di politica culturale si persegua, o forse lo è anche troppo – e i milioni di cinesi attesi per l’Expo ultimamente hanno la meglio. Resta che forse l’annunciata pubblicazione del bando per l’assunzione dei 10 direttori dei 10 musei più importanti d’Italia sull’Economist serve fino a un certo punto se contestualmente non si sancisce l’autonomia di tali direttori dai guizzi dei consorzi di produttori agroalimentari o chi per essi. Cioè se, a prescindere dall’eccitazione da Expo, quei super direttori non vengono scelti a fronte e in coerenza con degli obiettivi politici chiari. Quindi, mi sembrerebbe più un cambiamento di verso partire esplicitando che, sì, sappiamo tutti quanto è immane e rassicurante (quando non cade a pezzi) il nostro patrimonio storico artistico, sappiamo tutti il potenziale turistico del Paese anche grazie al patrimonio di cui sopra, ma dobbiamo anche e soprattutto ricordarci che non c’è patrimonio e turista che tengano, senza la capacità della cultura contemporanea di rafforzare la comunità di riferimento, di reinterpretare, riattualizzare e rilanciare il suo passato e presente verso il futuro, proprio là dove non è attesa, dove non è benvoluta, dove non è confortante. E per questo non può essere ancella né del Natale né dell’Expo, secondo le stagioni – senza nulla togliere, s’intende, all’importanza del “tortellino terapeutico”, come mi insegnò un giorno il grande Concetto Pozzati.
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“Il monopolio non ce l’ha nessuno e la Pop Art ci ha insegnato che cultura popolare e cultura d’élite non solo convivono ma possono mescolarsi e interagire tra loro. C’è un problema, però, di mantenimento dell’integrità […]. L’opera d’arte agisce sempre come una deflagrazione in noi, ci rende consapevoli del passato, ci aiuta a vivere il presente, ci proietta nel futuro. Considerarla […] qualcosa “di bello” di fronte – o dentro al quale – si può organizzare un cocktail party significa (oltre che metterne a rischio l’incolumità) staccare il detonatore, limitare o addirittura annullare il potenziale attivo dell’opera […], che ci trasforma in cittadini più consapevoli, e dunque migliori. MP, in questo dialogo.
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