Dagli scali, la nuova città
Si è concluso sabato il workshop di tre giornate organizzato da dalla società Sistemi Urbani (gruppo FS) in collaborazione con il Comune di Milano, dedicato a riaprire il dibattito sulla trasformazione e riqualificazione del sistema delle aree degli scali ferroviari dismessi. Ricordiamo brevemente che si tratta di sette aree (per un totale di circa 1.300.000 metri quadrati di cui solo 190.000 manterranno una destinazione legata alla ferrovia) di proprietà del gruppo Ferrovie dello Stato, distribuite lungo la linea ferroviaria che circonda la parte più consolidata della città di Milano e del cui destino si discute dal 2005. Alla fine dell’amministrazione Pisapia, il lungo e faticoso percorso che aveva portato alla stesura di un accordo di programma tra Comune, Ferrovie e Regione Lombardia si era interrotto, abbastanza clamorosamente, con la sua mancata ratifica da parte del Consiglio Comunale. La nuova amministrazione ha quindi voluto riattivare il dibattito e, il 14 novembre scorso, il Consiglio Comunale ha approvato una delibera di indirizzo, propedeutica alla stesura di un nuovo Accordo di Programma.
Il workshop appena conclusosi è quindi il primo atto di un percorso di confronto pubblico sul processo di trasformazione urbana, espressamente previsto dalle linee di indirizzo approvate.
L’iniziativa del workshop ha suscitato nei giorni antecedenti polemiche abbastanza accese che hanno trovato sfogo anche nella giornata iniziale del convegno, legate al coinvolgimento, per chiamata diretta e non per concorso, di cinque gruppi di progettazione, coordinati da cinque professionisti di chiara fama: Stefano Boeri, Francine Houben (Mecanoo), Benedatta Tagliabue, Ma Yansong (MAD Architects), Cino Zucchi. Il compito dichiarato di questi progettisti è di proporre “visioni” non progetti e definire possibili strategie, a partire dai principi emersi dal dibattito pubblico di questi giorni, con l’obiettivo di arrivare, anche attraverso ulteriori momenti di confronto pubblico, alla definizione del “programma” degli interventi di trasformazione. Il fatto che a gestire l’organizzazione di questa iniziativa, destinata a orientare il processo che sfocerà in una trasformazione così importante per la città sia il soggetto proprietario delle aree e le ambiguità della sua natura pubblico/privata rendono certamente legittima qualche perplessità. D’altra parte le vicende della trasformazione delle aree di Geribaldi-Repubblica a partire dal grande concorso del 1991 dimostrano che è illusorio pensare che il semplice fatto di indire un concorso di architettura, in assenza di un soggetto pubblico forte e dotato di una struttura tecnica e della forza politica in grado di imporsi e non subire la volontà e gli interessi degli sviluppatori immobiliari, possa essere la panacea di tutti i mali della trasformazione urbana.
In ogni caso, dal punto di vista dei contenuti, quanto emerso nelle tre giornate di dibattito presenta vari spunti interessanti.
Innanzi tutto si è parlato di visioni e scenari per la città pensando ad una scala e ad un orizzonte temporale di ampio respiro. Se Milano vuole competere a scala globale con altre città in un mondo che è e sarà sempre più interconnesso, deve ripensare se stessa tra 15/20 anni come una grande metropoli regionale che raccoglie una decina di milioni di abitanti, in cui il ruolo delle infrastrutture e della mobilità intelligente sarà veramente strategico per conservare l’identità dei territori che la comporranno, riportando al centro dell’attenzione luoghi e persone, senza dimenticare che uno degli aspetti dell’attrattività di Milano, che la differenziano rispetto alle grandi città europee e del mondo, è proprio il suo essere una città “piccola” in cui tutto è disponibile e rapidamente raggiungibile, ma contemporaneamente collegato ad un’ampia rete di altre forti centralità.
Un altro aspetto molto importante emerso durante le giornate di dibattito è la necessità di ripensare gli strumenti della trasformazione urbana, rendendoli più adatti a governare processi di trasformazione assai più complessi di quelli su cui i principi dell’urbanistica tradizionale sono stati fissati. In questo senso va sottolineata l’importanza della capacità di ragionare a tutti i livelli in maniera davvero “visionaria” sulla città, perché se da un lato è vero che l’architettura e la pianificazione urbana hanno perso la capacità di costruire visioni del futuro chiare, comprensibili e che nel percorso della loro realizzazione non si frantumino contro il muro della realtà, dall’altro lato alla politica mancano obiettivi precisi verso cui dirigere la trasformazione delle città e dei territori o la volontà e gli strumenti per perseguirli. Già tra qualche mese sapremo se i cinque soggetti scelti per ipotizzare gli scenari di trasformazione di Milano a partire dagli scali ferroviari saranno stati all’altezza del compito o se assisteremo solo alla presentazione di una serie di rendering accattivanti, utili forse sul piano del marketing immobiliare.
Durante il workshop si è poi molto insistito sull’importanza del coinvolgimento dei cittadini, sia aprendo il dibattito ai loro contributi, sia innescando fin da subito un processo tangibile di trasformazione “dal basso”, attraverso la disponibilità delle aree per usi temporanei, in attesa della realizzazione di interventi più pesanti. Processi di questo tipo hanno dato in altri contesti ottimi risultati ed è quindi apprezzabile che, sia da parte della pubblica amministrazione che della proprietà, ci sia l’interesse a percorrere un percorso virtuoso in questo senso, ma non va dimenticato che i processi di partecipazione dei cittadini alla trasformazione urbana sono complessi, faticosi e che per funzionare devono essere gestiti da soggetti adeguatamente preparati e competenti. Nel corso di queste giornate, il “pubblico” è emerso come un soggetto che può anche osteggiare il cambiamento o aspirare ad una città inclusiva e multiculturale, ma al tempo stesso basata su principi e figure fissati all’epoca delle crociate, due desideri evidentemente non facili da conciliare. Illudersi che lasciare periodicamente a tutti la possibilità di dire la propria equivalga a una progettazione partecipata non è utile, se non forse per gettare una cortina di fumo su interessi e dinamiche di altro tipo. D’altra parte pensare che la partecipazione dei cittadini possa portare a trasformazioni urbane di qualità in assenza di un progetto capace di indirizzarle verso tale obiettivo è parimenti illusorio.
Si è parlato da più parti degli scali ferroviari come una grande occasione da non perdere per la città e dell’ambizione che le trasformazioni che si realizzeranno a Milano grazie alla liberazione di queste enormi aree siano paragonabili per importanza a quelle che nei decenni passati hanno non solo cambiato il volto di intere città europee (Barcellona, Berlino, Rotterdam), ma determinato al contempo le linee della cultura architettonica dell’epoca. Vale ricordare che per ottenere tale risultato Milano deve superare diversi e pesanti ostacoli, tra cui la farraginosità delle normative italiane in materia edilizia e urbanistica; l’assenza, all’interno dell’amministrazione pubblica, di una struttura tecnica e di una figura di eccellenza (ufficio progetti, city architect, ecc.) in grado di elaborare, promuovere e coordinare grandi progetti di interesse pubblico; ultimo ma non meno importante, la mancanza di una chiara ed esplicita volontà, da parte degli operatori pubblici e privati coinvolti, di scrivere un capitolo di storia dell’architettura, riservando uno spazio adeguato, accanto alle “archistar” ed ai “giovani”, a quelle generazioni di architetti di provata qualità nella ricerca progettuale che spesso non hanno trovato sufficiente spazio per misurarsi con realizzazioni importanti, ma che sarebbero in grado di caratterizzare questo momento di rinascita urbana definendo una “scuola”, esattamente al pari di quanto avvenuto negli scorsi decenni in Spagna, Portogallo, Olanda e Germania.
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