Innovazione

Biennale di Architettura di Venezia: dieci cose belle e interessanti

10 Giugno 2016

Si è aperta sabato 28 Maggio 2016 la 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Il curatore Aravena promette e poi mantiene: la mostra è oltre la linea “del fronte”, supera d’un balzo la precedente edizione e sia alla vernice che all’apertura ci sono tantissimi giovani, partecipanti e visitatori, da tutto il mondo. I progetti, i premi, le partecipazioni nazionali, gli eventi collaterali e quelli speciali, la “gran macchina” della Biennale è partita con un ruggito sud-americano – il Leone d’Oro è per il brasiliano Paulo Mendes da Rocha – ma la mostra è “tutta-Venezia”: è la città che sprofonda a richiamare ancora una volta il nuovo che avanza, anche dagli altri mondi, e al centro c’è un’insperata novità: il lavoro da architetti oggi. Dieci cose belle e interessanti, tra le numerose che fanno di questa mostra un’occasione preziosa per scoprire le notizie dal fronte e per riempirsi di bellezza. Da non perdere, non solo per gli architetti.

Da sabato 28 Maggio – fino al 27 Novembre – è aperta la 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, Reporting from the front diretta da Alejandro Aravena, ed è una macchina imponente: 65 partecipazioni nazionali nei padiglioni, di cui cinque nuovissime – Filippine, Lituania, Nigeria, Seychelles, Yemen – 88 partecipanti provenienti da 37 paesi diversi nella mostra internazionale al Padiglione centrale dei Giardini e alle Corderie dell’Arsenale, 50 di loro sono alla Biennale di Venezia per la prima volta. Il Padiglione Italia ha trovato una sua collocazione stabile nello spazio ereditato dall’edizione precedente alle Tese delle Vergini all’Arsenale. Resta il portale d’ingresso dell’edizione 2014, ma all’interno tutto è cambiato e quest’anno il progetto è curato da TAMassociati.

Il progetto curatoriale di Aravena – «un nuovo punto di vista sulle complessità e le varietà delle sfide aperte» nel mondo contemporaneo – è senz’altro audace. Non è la prima volta che proprio da Venezia si lancia un appello alla ricerca di un rinnovato “ruolo sociale dell’architettura” e non è la prima volta che si sospetta che l’apertura verso le dimensioni altre – la politica, la società, l’economia, l’ambiente, la cultura e l’arte – sia un escamotage colto e civile per parlare d’altro. Eppure ci hanno insegnato che l’architettura è la più civile delle arti. L’eco delle ricerche e degli strumenti degli anni ‘70 si sente chiaramente, quasi a voler segnare la distanza con gli anni più recenti. Mai come quest’anno il progetto di comunicazione della mostra è stato così spinto verso l’inclusione dei processi e delle pratiche, prima che dei progetti e delle opere, ovvero degli autori e dei linguaggi. Ma anche, mai come questa volta un curatore è stato tanto celebrato, sezionato, ritratto in innumerevoli pose e da diverse angolature dai media del settore. Quasi a voler invertire l’ordine dei fattori, nella mostra di architettura più dichiaratamente anti-star system della storia della Biennale di Venezia, è invece nata una stella. Perché Alejandro Aravena, oltre che una comunicazione efficace, ha costruito una mostra ricca e varia, accurata e disincantata, coerente rispetto alla sua formazione e alla sua attività e dunque onesta, dove ciascuno troverà un progetto da fare proprio, un luogo (fosse anche solo dell’anima) dove riconoscersi, una forma delle cose alla quale aderire, una pratica da sperimentare, un disegno da ricopiare, un nome e un indirizzo da annotare. Il lavoro oggi e le idee dal mondo al centro della mostra, insomma.

In molti hanno osservato che se nella precedente edizione il curatore Rem Koolhaas ci annunciava la fine di un’epoca (non ne soffriremo noi archi-no-star, semplicemente non era la nostra) predicando un ritorno ai “fundamentals” dell’architettura, a questa edizione allora toccherebbe l’apertura del nuovo corso a partire dall’impegno per migliorare la qualità dell’ambiente costruito e della vita delle persone che lo abitano. Non è poco, fosse anche solo nelle intenzioni. Le premesse dichiarate ci sono: «dobbiamo parlare a tutti», soprattutto a quelli che agiscono nei processi decisionali dichiara il Presidente della Biennale Paolo Baratta nel discorso di inaugurazione; «dobbiamo ascoltare coloro che sono stati capaci di una prospettiva più ampia e di conseguenza sono in grado di condividere esperienza e conoscenza» gli fa eco Aravena. Se e di quale nuova Età dell’Architettura si tratti è difficile dirlo a pochi giorni dall’apertura, ma in fondo una mostra parla da sé, e di sé, essenzialmente attraverso quello che mette in scena.

È allora possibile stilare una piccola lista delle cose viste – parziale e incompleta come tutte le liste – un promemoria di quello che resta in mente di “questo viaggio davvero mondiale” nel quotidiano di tutti coloro che continuano a spostare la propria linea del fronte anche solo di un millimetro. Fosse anche per far venire voglia di andare a vedere.

Ai Giardini:

1. Al padiglione della Germania c’è Making Heimat. Germany, arrival country, a cura di Oliver Elser per il Deutches Arkitekturmuseum (DAM) di Francoforte. “Heimat” non ha un corrispettivo in italiano, né in inglese, metà “casa” metà “paese d’origine”, è una parola solo tedesca che rappresenta il sentimento di sentirsi a casa. La Germania ha accolto circa un milione di rifugiati nel corso del 2015 e ci tiene a darne una propria narrazione. E così il padiglione tedesco è stato sventrato in quattro punti, realizzando nuove aperture senza serramenti che mettono in scena l’apertura dei confini tedeschi ai flussi migratori. All’interno sono esposti una serie di edifici e servizi di prima accoglienza per coloro che “arrivano in città” e lì abitano nell’attesa della cittadinanza. Sono prototipi costruiti – di edifici residenziali, quartieri, servizi commerciali – che descrivono uno sforzo collettivo di istituzioni, progettisti e operatori nel provare a rispondere a una crisi dell’alloggio che assume sempre di più i caratteri dell’emergenza: la casa accessibile deve essere costruita per tutti, a partire dai migranti e i rifugiati. Un intervento che va dritto al centro della questione, con le immagini e i disegni che documentano, lo spazio aperto che partecipa e la comunicazione affidata a testi incisivi che dicono della “città d’arrivo”: è una città dentro la città, è accessibile economicamente, è informale, è auto-costruita. La “città d’arrivo” occupa i piani terra e ha bisogno delle migliori scuole. Seppure sul limite della retorica dell’inclusione, è un padiglione da primi della classe (dove la classe è la malconcia UE).

2. Nel padiglione del Giappone è allestito “En”: art of nexus, a cura di Yoshiyuki Namana per la Japan Foundation. I nessi, le relazioni tra le “cose”, le persone e il territorio e il loro essere materia d’architettura e progetto sono al centro di un’esposizione che guarda alla grande crisi della società dei consumi che anche in Giappone ha il volto della disoccupazione dei giovani, della crescita delle disuguaglianze e del dissesto del territorio. Una serie di modelli di scala diversa mettono in mostra gli edifici delle relazioni, la casa innanzitutto che ha seguito i cambiamenti nella composizione familiare e negli usi e ha dimensioni e forme ridotte. Nei progetti selezionati emerge con forza l’idea che l’architetto debba immergersi nella vita quotidiana degli abitanti, nei nessi che la compongono  – incontrarsi, mangiare, lavorare – e da lì disegnare e costruire. Ci sono progetti e prototipi per una casa condivisa per nuclei familiari individuali, c’è la “riduzione” di una casa in legno tradizionale adattata a una nuova “famiglia aperta” – l’anziana signora e i suoi ospiti – c’è un progetto per una casa d’appartamenti in affitto per giovani artisti con uno spazio condiviso per lavorare ed esporre. Un progetto bello, accurato e minuto, in cui l’architettura prende vita dalle piccole cose «grazie alle persone che le raccolgono, le uniscono e le modellano» generando una rete di relazioni reciproche – le infinite possibilità di “en” – che, ci dicono i curatori giapponesi, possono introdurre un cambiamento sociale.

3. Nel padiglione spagnolo va in scena Unfinished, a cura di Iñaqui Carnicero e Carlos Quintana, un’immersione nel «paese dove probabilmente l’impatto della crisi economica ha colpito più duramente la pratica dell’architettura», dove la macchina vorace della speculazione edilizia e gli effetti della recessione hanno lasciato in eredità sul territorio, in pochi anni e in quantità rilevanti, una moltitudine di edifici incompiuti perché completarli, o semplicemente mantenerli, era diventato insostenibile: una collezione di opere che sono l’esempio costruito del “sin razón” dei tempi recenti. Su queste rovine del contemporaneo la mostra prova a lanciare uno sguardo possibilista, dicono i curatori, essenzialmente in due direzioni: da una parte con un reportage fotografico che rappresenta criticamente lo scenario dell’abbandono e del “disastro della bolla immobiliare”, ma senza trascurare la potenza evocatrice dell’immagine del Non-finito; dall’altra con una raccolta di progetti realizzati che per necessità hanno incluso nei loro processi – dal disegno alla realizzazione – un’idea di economia (dei mezzi) e di semplicità (nelle forme e nelle finiture). Senza rinunciare alla suggestione del “Tempo grande scultore”, la proposta degli architetti spagnoli pone al centro dell’attenzione un’idea evolutiva di architettura (non nuova) superandone, però, (ed ecco la novità) la dimensione solo estetizzante e limitata alle forme e all’immaginario del paesaggio in rovina con un lavoro concreto di descrizione di opere e progetti recenti. Consolidare, riappropriarsi, adattarsi, inserirsi, spogliarsi, sovrapporsi, ricollocare, lasciare tracce da seguire sono alcuni dei modi attuali del lavoro da architetto che viene mostrato con disegni e immagini efficaci. Unfinished ha di certo un’ambizione strategicamente ben collocata nella cornice del progetto generale di Aravena: guardare al processo prima che al risultato, all’evoluzione prima che all’esito. E lo fa dichiarando che questa è la via per sostenere la costante incertezza della professione nella condizione attuale. Quello che vediamo è dunque un progetto analitico e rigoroso sul cambiamento in atto nel territorio spagnolo (ma solo in quello?) e nel mondo professionale, accompagnato da una proposta estetica rilevante e colta, da un allestimento semplice, economico e bello. Hanno vinto il Leone d’Oro, infatti.

Al padiglione centrale dei Giardini e alle Corderie dell’Arsenale, nell’insieme della mostra internazionale Reporting from the front con i progetti selezionati direttamente da Alejandro Aravena i temi sono molteplici – sostenibilità, inquinamento, disuguaglianze, periferie, housing, riuso, sperimentazioni al limite dei campi disciplinari e della professione – e ci sono progetti e opere dei quali si è voluto prima di tutto «conoscere la storiascrive Aravenale difficoltà, le strategie messe in atto».

Alle Corderie dell’Arsenale:

4. Amateur Architecture Studio (China) propone un restauro “sociale” del villaggio di Wencun (Hangzou). Inizialmente incaricati di progettarne il locale museo nell’ambito di un ampio programma di rinnovamento urbano, Wang Shu e Llu Weny rilanciano e propongono di conservare il villaggio tradizionale, sperimentando un restauro on site. A Venezia hanno portato foto, materiali edili – ceramiche, mattoni, campioni di murature composite e di conglomerati sperimentali (il più bello quello con il bambù impresso), di pavimentazioni assemblate con conci di recupero di tutte le forme – e disegni che documentano un lavoro “amorevole”, attento a quella dimensione che loro chiamano “tradizionalmente naturale” dei villaggi cinesi, qui portati a esempio di un modo di vivere semplicemente più sostenibile non solo rispetto all’ambiente, ma anche rispetto all’evoluzione della cultura, anche architettonica, e della società: restaurare non è solo un atto conservativo, ma coinvolge direttamente i cittadini chiamati a condividere ogni fase del progetto.

5. Atelier Bow-how (Giappone) presenta il progetto per il Kurimoto First Firewood Supply Plant (Katori, Chiba). Un progetto “doppiamente” sociale: uno stabilimento industriale dove si ri-usa il legname della foresta intorno per “curarla”, partecipando al taglio del bosco, e dove sono impiegati anziani e disabili addetti al trincetto. Si tratta di un esperimento vicino a quello della fattoria Koisuru-Buta Laboratory in cui il progetto ambientale e quello sociale si fondono insieme alla ricerca di un equilibrio delle cose e delle persone. Bow-how ne descrive la storia, il funzionamento, i protagonisti con una serie di disegni realmente dotati di grazia in cui lo spazio segue le attività delle persone. E così non è difficile capire cosa si intende per spazio sociale.

6. Rahul Mehrotra e Felipe Vera (USA/India) portano a Venezia il loro megaprogetto di ricerca sulle città effimere, Ephemeral urbanism, cities in constant flux, quelle città precarie, costruite “a termine” dove la condizione urbana è non-permanente, dove progetto e realizzazione coincidono in un unico grande sforzo collettivo, dove la forma corrisponde al processo. È un viaggio attraverso immagini potentissime, vertiginose, come quelle della città-pellegrinaggio di Kumbh Mela che accoglie, secondo alcune fonti, fino a cento milioni di persone, viene costruita in pochi mesi, vissuta solo per tre e poi smantellata del tutto. Ogni tre anni e in un posto diverso. Tempi brevissimi e scala enorme, Kumbh Mela è un processo di processi in cui tutte le decisioni devono necessariamente lasciare spazio sufficiente al riadattamento, alla flessibilità. Le città effimere, secondo Mehrotra e Vera, parlano anche a quelle “statiche” perché queste ultime, per essere davvero sostenibili, oggi devono essere in grado di incorporare i flussi temporanei  nella propria struttura, in un sistema ambientale esteso ben oltre la configurazione fisico-materiale. Un progetto visionario, spaventosamente attuale.

Al padiglione centrale dei Giardini:

7. Grafton Architects (Irlanda) ha istallato delle gigantografie delle sezioni dell’edificio dell’università UTEC (Lima) sulle pareti. L’hanno chiamata una “scogliera umana”, cioè fatta dall’uomo (in questo caso due donne), in omaggio al paesaggio costiero di Lima affacciata a picco sul Pacifico. Il progetto è basato sull’idea di dar forma allo spazio delle relazioni tra gli individui, che è uno spazio intimo, ma di farlo alla grande scala celebrando la vita collettiva che è l’anima di un campus. E così struttura e architettura collaborano alla costruzione di un nuovo paesaggio dei percorsi e degli attraversamenti, dei giardini pensili e degli affacci, che ha la dimensione di un monumento all’insegnamento universitario. Tra cielo e terra il disegno della sezione è imponente e – dicono Farrell e McNamara – “educativo”: alla base le aule, in mezzo lo staff e il corpo docente, sul tetto la biblioteca che traguarda la città verso l’oceano. Raccontato così può sembrare pedante, in realtà è un gran edificio moderno piantato tra la metropoli e il mare.

8. Souto Moura Arquitectos (Portogallo) con il racconto della trasformazione di un proprio progetto – il mercato di Braga (1980-84) – in un altro è il miglior contributo a Reporting from the front. Non c’è un altro progetto che si faccia interprete dei temi proposti da Aravena altrettanto poeticamente ed efficacemente. Due modelli – prima e dopo – le foto delle demolizioni, spietate, e le foto della nuova scuola di danza, fu mercato. La narrazione è talmente secca che risulta profondamente anti-nostalgica, scevra di ogni retorica della rovina contemporanea: la nuova scuola nasce dal vecchio edificio scoperchiato, i pilastri restano in piedi e quello che era un interno diventa un giardino, i vecchi muri contengono nuovi spazi, ridotti alla misura di quel che serve. Questa è la prima generazione di architetti che vedrà demoliti i propri edifici perché la vita delle costruzioni si accorcia e quella dell’uomo si allunga e Souto Moura non ci pensa due volte: si mette a fare e disfare, senza remore. Ma soprattutto a “ fare di meno”.

9. Francisco e Manuel Aires Mateus (Portogallo) hanno costruito una piccola camera tutta nera e hanno inciso una collezione di sezioni senza fine nello spessore delle pareti. Una fessura continua che corre su tutto il perimetro all’altezza dell’occhio umano, illuminata da dentro. C’è il cubo scavato, c’è una pancia, c’è una casa dentro un’altra, c’è lo spigolo vivo (tradizione) e c‘è la linea concavo-convessa (novità), ci sono spazi riconoscibili “alla maniera” dei loro progetti e ce ne sono degli altri che-chissà-un-giorno-si vedrà. È uno spazio, non un’istallazione per l’esposizione di un’opera, e se lo sono progettato e costruito a misura del loro lavoro perché è quello il centro della questione. È talmente semplice e bello che chi entra dentro per prima cosa si diverte, percorre con la mano il contorno, tasta al buio, fa una carezza all’architettura. Si ambienta, prende le misure. Poi ci pensa su e si accorge che è un documento rigoroso di un’attività instancabile di studio e prove di spazi, sempre più spinta oltre la linea del proprio fronte, sezione dopo sezione, calco dopo calco, e che mai come in questo caso l’immaginario del limite è così aderente al metodo di lavoro. È forse la versione più vera e onesta del Reporting from the front, e anche la più sensuale.

Ne ha parlato a lungo lo stesso Manuel Aires Mateus durante la prima delle Biennale Sessions, il progetto speciale dedicato a Università, Accademie di Belle Arti e Istituti di Formazione Superiore. L’elenco dei partecipanti è lunghissimo a testimonianza del fatto che la mostra internazionale di architettura è sempre la più importante del mondo, anche per i giovani e per le scuole. Ad aprire la sessione 2016, sabato 28 Maggio, c’era Abadir, Accademia di Design e di Arti visive di Catania con cinquanta studenti e Aires Mateus, invitato per l’occasione da Lucia Giuliano e Luigi Pellegrino, per parlare del progetto per la Biennale e poi di tutto quello che serve a fare appassionare gli studenti: il lavoro, i viaggi, i luoghi dell’anima e quelli archetipi, la vita da studente e da architetto, come si organizza uno studio, com’è insegnare – e com’è imparare: «studiare e provare», i libri e internet –  Borromini e Niemeyer, l’arte e il design, e ancora come si costruisce oggi e in che direzione spinge l’innovazione tecnologica – nessuna: «l’architettura è oggi del tutto low-tech» – e la “parabola” del vaso, architetti o designer, lavoriamo tutti per costruire un intorno di quel qualcos’altro che è il vero oggetto del nostro lavoro: uno spazio contenuto in una forma, che ha vita in sé diceva Henri Focillon.

All’Arsenale nord, allo spazio Thetis:

10. Gang City è uno dei progetti collaterali della mostra, promosso dal DIST del Politecnico di Torino e coordinato da Fabio Armao, ed è essenzialmente un articolato reportage – foto, performance, spettacoli, cinema, incontri e un workshop al quale parteciperemo con la Fondazione Housing Sociale – sulle periferie di alcune città del mondo alla ricerca del nesso tra il tessuto urbano e il disagio sociale, quello dell’illegalità e della violenza. La bella mostra fotografica, a cura di Anna Zemella, viaggia tra Palermo – con le foto immortali di Letizia Battaglia – Roma, Napoli, l’Albania, l’America latina, Los Angeles. Che cosa hanno in comune queste foto?  Gli autori superano la denuncia sociale, spingendosi con lo sguardo oltre la linea della testimonianza con determinazione e partecipando delle vicende umane.

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