Biennale di Architettura, Leone d’oro “politico” per Mendes da Rocha
Ci sono diverse ragioni di cui rallegrarsi per questo Leone d’oro della 15ma Biennale di Venezia che viene attribuito a Paulo Mendes da Rocha, brasiliano classe 1928, vincitore del Pritzker nel 2006. Tra queste, è la scelta di un architetto di riconosciute qualità, tuttavia con una storia scarsamente global – dato che ha costruito il primo edificio permanente fuori dal Brasile a Lisbona, il Museu Nacional dos Coches, inaugurato lo scorso anno.
Ancora dunque un atto “politico” nel senso alto del termine, proposto dal direttore Alejandro Aravena – che per ragioni familiari conosce e frequenta il Brasile – giunto in un momento in cui anche l’attenzione riflessa di una Biennale verso la più grande democrazia del continente latino americano può aver senso; ora che la Presidente Dilma Rousseff ha un controverso impeachment in corso, mentre il Presidente della Camera – che tale impeachment ha guidato – giusto ieri 5 maggio è stato destituto dalle funzioni dalla magistratura, essendo anch’egli risultato implicato nel dilagante scandalo di corruzione Petrobras.
Politicamente, Mendes da Rocha fa parte da sempre della intelligentzia del Paese; parafrasando il critico e collega Flavio Motta, avrebbe assorbito grazie ad un comunista esule durante la dittatura come Oscar Niemeyer il dialogo Architettura-Natura. Mentre da un altro comunista, anch’egli perseguitato e peculiare, Vilanova-Artigas – del quale è stato protegée – avrebbe mutuato l’interazione Architettura-Società.
L’architettura di Mendes da Rocha comincia con una prodezza giovanile, il Centro Sportivo Paulistano (foto sopra), a San Paolo (con João de Gennaro, 1957-61); un’opera che già contiene l’attenzione alla espressività della struttura che sarà poi uno dei punti di forza nel suo lavoro.
E’ un tema, questo, che attraversa la produzione architettonica di impronta modernista del secondo ‘900 brasiliano, da Reidy a Villanova-Artigas, a Lina Bo Bardi, e che con Mendes da Rocha diviene estremo e provocatorio. Se infatti dal punto di vista funzionale Reidy al MAM di Rio de Janeiro (1952-’67) disegna uno spazio pubblico al piano terreno, per sospendervi al di sopra – pur con un certo numero di appoggi – il corpo del museo, così come Lina Bo Bardi fa al MASP-São Paulo (1957-’68) con una innovazione costruttiva formidabile, Mendes da Rocha al MUbe-Museu da Escultura Brasileira (1986-’95) – donde viene la foto qui sotto, che ho scattato qualche giorno fa – realizza una sorta di anti-edificio, una architettura del suolo.
Qui il lavoro sta tutto dentro nella terra ad eccezione della copertura sospesa. E’ una copertura precompressa che fa 60 metri di luce a segnalare all’esterno uno spazio che altrimenti si svela (solo) per qualche segno d’acqua studiato con Roberto Burle-Marx. E sopra quella lastra orizzontale vuota non c’è corpo di fabbrica, non c’è funzione.
Paulo Mendes da Rocha, MUbe-Museu Brasileiro da Escultura, San Paolo, 1986-’95
Ad una copertura opaca e “pesante” che si presenta appunto come grande lastra, fa seguito – evidenziando una cifra che non è stilistica, ma semmai concettuale – un’altra trasparente che accoglie e dosa la luce all’interno:
Apparentemente, è lo spazio pubblico della FAU-USP (1961-’69) di Vilanova-Artigas – forse uno degli edifici più emozionanti e coinvolgenti di tutta la produzione modernista nelle regioni tropicali – a esser traccia del grande tetto che diffonde luce con lacunari aperti sopra le corti della Pinacoteca do Estado de São Paulo ristrutturata tra il 1990 ed il 1998 da Mendes da Rocha. Il quale in questo modo rende estrema, ricalibrandola su un corpo di fabbrica storico, una visione che è dichiaramente moderna.
Paulo Mendes da Rocha, Ristrutturazione della Pinacoteca di Stato, San Paolo, 1990-’98
Vale ancora – sempre per cogliere il senso estremo del lavoro di PMR – pensare alla pensilina di Praça do Patriarca a San Paolo (2002) dove la copertura è tutto, legata con un vuoto (una sospensione) al disegno del suolo. Qui sotto, nella foto, ma ancora meglio nel video di Pedro Kok si può vedere l’opera nell’uso quotidiano. E’ uno spazio pubblico primario:
La “socialità” di Mendes da Rocha in effetti non viene dall’aver lavorato sul social housing o sulla partecipazione; piuttosto la sua è una sorta di socialità di processo, frutto di un tempo e di un luogo dove esiste la condivisione disciplinare dell’architettura.
Penso che queste due interviste, datate l’una 2003 e l’altra 2006, aiutino a comprendere l’idea di relazionalità che intrinsecamente sta nel lavoro di Paulo Mendes da Rocha; che è in effetti prassi quotidiana con colleghi, amici, collaboratori e non ha nulla a che vedere con lo star system né con la relativa ossessione mediatica.
Piuttosto, è come un mondo per cui le qualità individuali concorrono a risultati di interesse collettivo: una opzione politica.
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