America
Apprezzeremo davvero Obama solo quando non sarà più presidente…
Il 2014, tra le tante cose, è stato l’anno della sconfitta elettorale di Barack Obama. Alle elezioni di mid term, il presidente degli Stati Uniti, il “profeta del progressismo” degli Anni Duemila, è stato bocciato dagli elettori, che hanno consegnato la Camera dei rappresentanti e il Senato nelle mani dei repubblicani. Eppure, proprio da quel giorno ho iniziato a pensare che Obama è quel tipo di leader che viene rimpianto quando non c’è più.
Come tutti i presidenti, ovviamente, ha commesso degli errori. Il più evidente è stato la gestione titubante della crisi siriana, che ha sortito un doppio effetto deleterio: aumentare il caos in Siria, fornendo l’humus per lo sviluppo dell’Isis, e ringalluzzire Vladimir Putin (che per alcuni nell’estate 2013 è diventato una sorta di alfiere del pacifismo, sic), alimentando gli appetiti neo-imperialisti dello “Zar”. Più in generale, in politica estera, Obama ha dato la sensazione di improvvisare, senza avere una reale strategia, o forse – in realtà – ha preferito assumere un profilo più basso. In ogni caso, il risultato è che in alcune aree ha alimentato l’instabilità. Per quanto riguarda i “dossier” interni, poi, c’è una certa delusione per la sua battaglia contro Wall Street, tutt’altro che vigorosa. Insomma, non ho intenzione di fare nessuna apologia di Obama, perché ha preso parecchie scelte sbagliate o poco coraggiose.
Eppure, dopo quel voto di mid term, il tarlo del dilemma ha ripreso forza: Obama è stato un bluff totale, un fenomeno di pura comunicazione (sebbene da manuale), oppure è stato un ottimo presidente, vittima di un giudizio frettoloso? Ammetto che ho proteso per la seconda opzione, arrivando a una conclusione: la smania di esprimere un giudizio immediato soppianta la capacità di fare un’analisi sul lungo periodo. L’impellenza del “tutto e subito” oscura la ragione e fa emettere sentenze dettate dall’emozionialità. E il leader democratico è stato schiacciato da questa dinamica.
Così, tanto per dare sostanza al mio pensiero, il presidente statunitense, descritto come una lame duck (un’anatra zoppa), ha fatto incetta di risultati in poche settimane. Cito come rassegna: la riforma del sistema di immigrazione, la pubblicazione dei rapporti sulle torture della Cia, la svolta delle relazioni con Cuba, la difesa della libertà di espressione (parlando del film The Interview), e, last but not least, la ripresa vertiginosa dell’economia con la crescita del 5% nel terzo trimestre del 2014. Il dato economico, peraltro, non è estemporaneo: la disoccupazione negli Stati Uniti cala costantemente da più di due anni. Basti pensare che dal massimo del 10% toccato nell’ottobre 2009 gli States sono passati al 5,8% del novembre 2014. Il campionario di successi, quindi, fa pensare che Obama sia un grande presidente. Anche perché ha centrato l’obiettivo principale della sua presidenza: rilanciare il gigante americano, portandolo fuori dalla crisi economica. Eppure non è bastato a salvarlo dall’ondata di impopolarità in patria e dallo scetticismo maturato Oltreoceano.
Perciò, tornando al punto di partenza, credo proprio che sentiremo molto la mancanza di Obama quando alla Casa Bianca ci sarà qualcun altro. E ci pentiremo di aver talvolta sminuito il suo operato. Un po’ come accade con le cose belle vissute senza averne la consapevolezza e che sono apprezzate quando svaniscono.
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