America
La cultura dello stupro ha contagiato le élite americane
La scena è di qualche settimana fa. L’ex presidente degli Stati Uniti d’America, Jimmy Carter, è seduto vicino a Peter Salovey, presidente dell’università di Yale, e poco più in là siede un altro ex presidente, il messicano Ernesto Zedillo, adesso capo del “Center for the Study of Globalization” della stessa università. Carter ha finito da poco la sua prolusione sui diritti delle donne, di fronte a una platea di più di 2500 persone, soprattutto studenti. C’è tempo per alcune domande, anche su altri temi, ma è chiaro che quello è l’argomento di cui vuole parlare l’ex presidente, quello che gli sta a cuore e su cui ha da poco scritto un libro. Parla dei problemi costanti nei campus americani, anche (e forse soprattutto) quelli delle università più prestigiose, con le violenze sessuali e in generale con la cultura maschilista. Si capisce che non vuole sferrare un attacco diretto all’università che lo ospita, ci gira un po’ intorno finché Salovey non prova una difesa preventiva e un po’ goffa delle politiche di Yale sull’argomento. “Ma in realtà – incalza Carter – ho letto un articolo sull’Huffington Post mentre venivo che diceva che Yale ha avuto, negli anni passati, sei studenti, maschi, che sono stati riconosciuti o hanno ammesso di aver compiuto violenze sessuali che non sono stati espulsi”.
L’imbarazzo è inferiore solo allo scrosciante applauso che segue. Solo un mese prima di questa scena un articolo sul New York Times aveva reso noto caso di molestie e discriminazioni sul lavoro perpetrate dall’ex capo di cardiologia della School of Medicine di Yale – uno dei centri di ricerca medica più importanti del paese. È la storia delle pesanti avance di un uomo potente verso una giovane ricercatrice italiana (per questo la storia ha avuto qualche risonanza anche in Italia) e di come i suoi rifiuti abbiano portato a discriminazioni lavorative nei confronti dell’allora fidanzato, ora marito, anch’egli alla School of Medicine. Non si tratta di problemi solo di Yale: una buona maggioranza delle università americane, specie quelle più prestigiose (cui in Italia guardiamo come modelli senza spesso aver idea di cosa parliamo), sono ancora controllate da uomini bianchi, spesso in là con l’età. E sono anche luoghi in cui stupri e molestie – o presunti tali, ci arriviamo – sono quanto meno possibili, se non diffusi.
Un’altra notizia che ha avuto una certa eco anche sui media italiani è la protesta silenziosa di una studentessa di Columbia che ha deciso di portarsi dietro il proprio materasso finché il suo stupratore non verrà cacciato dal campus, mentre un complicato caso di violenza sessuale di gruppo è esploso a University of Virginia poche settimane fa grazie a un articolo piuttosto discusso uscito per Rolling Stones (sul Post è uscita una buona sintesi di articolo e polemiche). Neppure la storica rivale di Yale, Harvard, è immune a queste vicende, tanto che U.S. Department of Education’s Office for Civil Rights sta investigando casi di mishandling (traducibile con cattiva gestione, spesso si tratta di occultamento, volontà a non procedere, negligenze, o simili) di violenze sessuali all’interno della stessa università – il titolo dell’articolo di Slate è piuttosto chiaro: Harvard, Dartmouth, Princeton: perché così tante università d’élite vengono investigate per mishandling di violenze sessuali? [5]. Il tutto, naturalmente, nel mezzo alle polemiche suscitate dal famoso e controverso video della passeggiata per dieci ore per le vie di New York: ma se lì si vedono quasi solo uomini neri o latini, presumibilmente non di classi abbienti, rivolgere commenti pesanti alla giovane attrice, nelle università d’élite parliamo più spesso di giovani benestanti, in buona parte bianchi. E qui non c’è nessun video da manipolare.
Non è che gli Stati Uniti si siano scoperti tutt’a un tratto un paese di stupratori e molestatori, ma ci sono dei questioni reali, e le università americane sono uno dei luoghi più problematici per quanto riguarda le molestie sessuali. I motivi sono molteplici: il condividere spazi spesso limitati, vivendo tutti insieme nei dormitori, la cultura delle confraternite che ci fanno tanto ridere nei film americani tipo Animal House, un diffuso machismo spesso associato al successo negli sport (fra tutti il football americano), che garantiscono popolarità e coolness. È una sorta di piccola società parallela, dove gli studenti sono spesso lontani dalla famiglia, una società parzialmente isolata dal resto del mondo, con regole tutte sue, e che spesso fornisce servizi alternativi come una polizia autonoma, ospedale e trasporti. In ogni caso, il problema è talmente grande che l’Huffington Post ha una sezione dedicata specificatamente alle violenze sessuali nei campus, intitolata Breaking the Silence, “rompere il silenzio”, perché pochi di questi casi vengono effettivamente portati di fronte alle autorità di competenza, pochissimi vengono condannati.
I numeri però sono impressionanti, e piuttosto discussi. Ma che sia una studentessa su cinque vittima di un qualche tipo di violenza sessuale (come scrive Amanda Marcotte su Slate citando indagini svolte per conto della Casa Bianca) o una su dieci come dicono altre statistiche, rimane sempre un numero piuttosto alto.
Le zone grigie sono però molte, così come c’è il rischio di farsi travolgere dal moralismo. Diverse critiche, per esempio, sono piovute sulla legge californiana, da applicarsi a tutte le università che ricevono finanziamenti dallo Stato, del “Yes means yes” (sì significa sì, variazione del “no means no”) secondo cui serve una decisione affermativa, conscia e non ambigua da parte di ognuno dei partner. Difficile stabilire con certezza quando questo consenso viene dato e quando no, e la presunzione di innocenza ne esce malconcia. Di recente ha fatto notizia la storia dell’ex quarterback di Yale, ora alla Harvard Law School, che ha raccontato come un “informal complaint” (una lamentala informale) della sua ex ragazza di abbia quasi rovinato la vita. Se ne parla ora perché Harvard è in procinto di approvare una serie di norme più restrittive, simili a quelle già presenti a Yale, che si basa ampiamente sulle testimonianze. Dal 2011 infatti le università hanno più potere e autonomia sulle policy da adottare sul tema, conducono processi e indagini interne.
Le nuove norme di Harvard hanno trovato l’opposizione di un gruppo di professori della Law School locale che hanno protestato con un lungo articolo: “L’obiettivo non deve semplicemente essere andare nella direzione di prevenire qualunque cosa che si possa caratterizzare come molestie sessuali. L’obiettivo deve invece essere quello di affrontare la questione delle violenze sessuali mentre al tempo stesso si proteggono gli studenti contro una disciplina ingiusta e inappropriata, onorando l’autonomia delle relazioni individuale e salvaguardando i principi della libertà accademica”. Sui rischi di queste nuove norme ha scritto Jed Rubenfeld su New York Times: “Secondo questa definizione, una persona che si spoglia volontariamente, e fa sesso con qualcuno, senza però comunicare chiaramente sì o no, può affermare in seguito – correttamente – di esser stato/a violentato/a. Questa non è un’opzione ipotetica da esame di giurisprudenza: è una conclusione insita negli standard del unambiguous consent [consenso non ambiguo]” (per questo passaggio Rubenfeld, che insegna alla Law School di Yale, è stato criticato da un buon gruppo di studenti della stessa scuola). Il rischio è quello del moltiplicarsi del sottobosco di gossip, di informazioni anonime, persino in casi limite di ritorsioni di ex partner: che si passi, insomma, dal non tutelare le presunte vittime al non tutelare i presunti colpevoli, e che passino messaggi assurdi come quello che arriva fino a implicitamente affermare che ogni rapporto sessuale sotto l’influenza dell’alcol non sia consenziente – in un paese dove, vale la pena ricordarlo, è ancora in vigore una legge liberticida e assurda come il limite per consumare bevande alcoliche fissato a 21 anni; e questo non implica che nei campus non si beva, ma solo che lo si fa segretamente, nelle stanze dei dormitori, nella confraternite, dove è più facile che la situazione esca fuori controllo. E poi rimane una questione fondamentale: il consenso da chi deve essere richiesto? Chi dice sì e chi dice no? L’assunto, sottinteso se non dichiarato, è che debba essere l’uomo a chiederlo, e questo provoca chiaramente qualche problema ideologico, oltre a escludere il sesso non eterosessuale.
Serve un cambio di mentalità. Infatti se sugli stupri ci possono essere dubbi, se è spesso difficile dimostrare la colpevolezza dei presunti stupratori (ma quando viene dimostrata devono essere puniti), sulla cultura maschilista, e biancocentrica, i dubbi sono pochi. Gli esempi sono molteplici. Ancora il New York Times parla “una cultura dei rapporti sociali basata sulle bevute e dominata dall’ambiente delle confraternite”, mentre è piuttosto diffuso in diversi campus lo slogan “No means yes and yes means anal” (“no significa sì e sì significa anale”) che fa il verso al “no means no”: recentemente, a Texas Tech University, una confraternita ha esposto uno striscione con questa scritta ed è stata conseguentemente punita [12]. Cominciare, passo dopo passo, a provare a cambiare questa cultura sarebbe già un ottimo risultato: rendere le università, specie quelle più prestigiose, posti più diversi e con una più elevata rappresentanza femminile nei posti di governo (davvero, non solo nominale), e intervenire sulla cultura da sbronza molesta e da confraternita (anche legalizzando l’alcool) e sul machismo diffuso e tollerato. E magari riuscire a fare tutto ciò senza farsi travolgere dal moralismo, senza far sembrare il sesso una cosa brutta e un po’ sporca.
[Grazie a Giovanni Fontana e Karen Raizen per i preziosi consigli]
(Foto di Melissa Brewer, tratta da Flickr)
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