America

Trump, i giornali e quella storia che non leggeremo mai

14 Novembre 2016

Giornali e analisti non hanno capito ciò che stava accadendo negli Stati Uniti. La colpa, però, a quanto pare sarebbe del web o forse degli elettori che non hanno votato secondo i desideri di inviati e sondaggisti; e infatti in Italia s’è persino aperto il dibattito sulla revisione del suffragio universale. È un dibattito inquietante almeno quanto è pericoloso Trump, sebbene non siano in molti a preoccuparsene. In ogni caso, questo genere di ripiegamento – e il battutismo bolso che spesso segue – non risponde alle domande sollevate dal fallimento della informazione.

Sinora di opinioni se ne sono lette molte, interessanti e varie, ma per lo più consolatorie e rassicuranti, a volte addirittura autoassolutorie, in qualche caso piuttosto divertenti come quando sono stati indicati – e non si capisce con quale legittimazione, dopo la figuraccia appena rimediata – i social network come corresponsabili del disastro; tema peraltro serissimo e quindi da affrontare con serietà. Eppure, almeno in prima battuta la ragione che ha provocato la mancata comprensione di ciò che stava accadendo appare davvero facile da indicare: c’è stata una fortissima proiezione sulla realtà di un proprio desiderio che, insieme alla scarsa frequentazione di quella stessa realtà, ha provocato questa clamorosa débâcle.

Per quello che riguarda il secondo aspetto, ossia la scarsa frequentazione della realtà che si pretendeva di raccontare, e limitandoci all’informazione italiana, non sembra che siano stati molti i giornalisti che si sono spostati più di tanto da Manhattan in questi ultimi mesi e in questo modo diventa difficile raccontare cosa accade, per dire, nelle grandi pianure centrali e nell’America rurale. Le eccezioni sono poche e, tra queste, c’è sicuramente la trasmissione La Casa Bianca in onda su RaiTre e condotta da Iman Sabbah, la quale ha realizzato un racconto degli Stati Uniti come ci si aspetta sempre che sia l’informazione: una cronaca costruita spostandosi dove c’è qualcosa da raccontare, facendo parlare le persone, mostrando i luoghi.

Quanto invece alla prima questione, ossia il non riuscire a distinguere tra i propri desideri e la realtà, come è noto l’informazione americana si è schierata quasi per intero al fianco di Hillary Clinton, facendo in sostanza da sponda alla sua campagna elettorale, trasfigurandosi da informazione in comunicazione. L’informazione italiana a quanto pare è andata a ricasco. Non tanto perché abbia fatto il tifo, quanto invece perché, forse anche a causa della pigrizia della quale si diceva poco sopra, è apparsa disarmata e influenzata più del consentito dal clima generale. Anche in questo caso le eccezioni sono state poche. Si può ricordare almeno Paola Peduzzi del Foglio. Tutto ciò ha finito per tradursi in una mancata comprensione di ciò che stava accadendo, e da ciò il racconto quanto meno impreciso della realtà statunitense.

Per gli errori commessi, alcuni grandi giornali americani hanno offerto le proprie scuse ai lettori. In Italia no. E, anzi, prosegue tuttora un racconto estremamente stilizzato, italianizzato e spesso ideologico degli Stati Uniti. La questione femminile – ad esempio – è stata centrale nella costruzione mediatica di Hillary Clinton, ma poi non si manca mai di ricordare certe vecchie foto di Melania Trump, come se le due signore fossero soggette a regole diverse. O ancora: qualche sera fa a Otto e Mezzo Beppe Severgnini a proposito di Sarah Palin ha esclamato: «Ma di cosa stiamo parlando, io l’ho sentita parlare Sarah Palin, cioè Giorgia Meloni è Indira Gandhi in confronto». Se anche si fosse d’accordo con Severgnini, stupisce che nel corso di una trasmissione televisiva un giornalista – non un politico dello schieramento avversario, un giornalista – si lasci andare a toni così sprezzanti e ideologici. E dire che il filtro ideologico andrebbe benissimo in fase di commento, se però fosse sostenuto dalla cronaca la quale, come si diceva, è sostanzialmente mancata, riducendosi così il racconto americano a un intreccio di speranze, opinioni e desideri.

Il fatto è che la stampa italiana continua a non affrontare davvero la questione della propria insufficienza. Michele Serra e Alessandro Baricco su Repubblica se la sono presa con la disintermediazione che dipenderebbe anche dalla «mitologia del web» e che avrebbe messo fuori gioco le élite, quasi si sentissero assediati da una folla di Napalm51. Deve loro apparire una trascurabile circostanza il fatto che, web o meno, sono stati proprio giornali e analisti a non comprendere ciò che stava per accadere in Usa. Meglio Nadia Urbinati che, sempre su Repubblica, ha ammesso che «i radar dei media liberal erano mal posizionati perché tirati dentro il gorgo della battaglia partigiana fino al punto di diventare essi stessi organi di propaganda», e però poi non è riuscita a trattenersi dal precisare che si trattava comunque della propaganda «della parte buona, certo, moralmente buona». Ed è proprio questo il punto: giornalismo e politica andrebbero separati, e anche giornalismo e morale, altrimenti tutto diventa un pasticcio il quale nutre un’abitudine ideologica che pretende di fare a meno della realtà. E alla fine non si capisce più a cosa servano davvero i giornalisti quando parlano e scrivono come preti o segretari di partito.

Secondo Prima Comunicazione, Repubblica a settembre 2016 ha diffuso in media 239.605 copie con un calo di circa l’11% rispetto a settembre 2015. Il Corriere della Sera ha fatto anche peggio con 238.671 copie e un 17,38% in meno. Gli altri quotidiani seguono tutti in perdita, chi più chi meno. È un disastro che va avanti da molto tempo e il confronto con i dati di qualche anno fa è addirittura devastante. Un motivo c’è, e non è soltanto Internet, anche se fa comodo dire che è così. Si potrebbe iniziare a raccontarla questa storia. Sarebbe una storia interessante. Sarebbe una di quelle storiacce che una volta i giornali raccontavano sopratutto d’estate e che facevano vendere copie in edicola. Ma probabilmente è una storia che sui giornali italiani non leggeremo mai.

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