Con Trump ha vinto l’America low-tech del petrolio, del mais e dei costruttori
La vittoria di Trump e dei repubblicani al Congresso ci dice tre cose.
La prima, come scrivevo su questa testata il giorno prima delle presidenziali, è che è finita l’era della globalizzazione come l’avevamo conosciuta. La seconda è che quando si ha a che fare con candidati così poco politically correct i sondaggi tendono a rivelarsi fallimentari, perché l’auto-censura indurrà una percentuale degli intervistati a non rivelare le loro reali intenzioni di voto. La terza è che l’improbabile, inedita alleanza tra l’America agrario-idrocarburica (preoccupata per il calo dei prezzi globali delle commodity) e l’America della Rust Belt (deindustrializzata e in crisi), è stata decisiva nel decidere le sorti del voto (si vedano le tabelle del mio post del 7 novembre).
Dunque, iniziamo dalle due Americhe saldatesi contro la Clinton. Una, quella della Rust Belt, per decenni serbatoio di voti dei democratici; l’altra, l’America agrario-idrocarburica, roccaforte del GOP dai tempi di Nixon. Due Americhe (tendenzialmente) con una capacità di innovazione e un livello tecno-scientifico bassi o medio-bassi, e antitetiche nei loro interessi economici e geopolitici all’America che ha invece votato con trasporto la Clinton: l’America ad alto tasso di innovazione e di istruzione, che in questi ultimi anni ha visto la sua economia prosperare e le sue aziende-simbolo diventare le più capitalizzate del pianeta. Per usare un lessico a effetto, Wall Street, la Silicon Valley, il Big Pharma e Hollywood hanno perso, sconfitte dal Big Oil, dalla Rust Belt e dalla Corn Belt.
In effetti, questa durissima, costosissima campagna elettorale è stata una guerra (virtuale, per fortuna) senza esclusione di colpi tra l’America tecnofinanziaria e il tandem conservatore. I dati sono eloquenti a riguardo. Consideriamo due autorevoli classifiche sul livello di innovazione e sulla capacità tecno-scientifica dei 50 stati (una graduatoria è stata elaborata dal Milken Institute, un’altra da Bloomberg), e vediamo per quale dei due candidati hanno votato gli stati nelle prime dieci posizioni (dal 1° al 10° posto).
Come si vede, l’unico stato a votare per Trump è stato lo Utah, realtà con peculiarità sociali e religiose molto forti. E d’altra parte lo Utah rappresenta l’unico stato dove un candidato terzo ha ottenuto un buon risultato: si tratta di Evan McMullin, ex ufficiale della CIA con posizioni politiche miste (pro-life, pro-scienza, non-negazionista del cambiamento climatico, tollerante in merito ai matrimoni gay), che ha ricevuto il 20,8% dei suffragi (non a caso in Utah Trump ha raccolto il 45,8% dei voti, contro il 76,2% di Romney e il 62,2% di McCain).
Se poi si esamina quanti stati sono presenti simultaneamente nelle prime dieci posizioni di entrambe le classifiche, vediamo che Trump non ne annovera neanche uno, mentre la Clinton ne vanta otto:
Torniamo alle due classifiche, e consideriamo per quale dei due candidati hanno votato gli stati nelle ultime dieci posizioni (dal 41° al 50° posto); come si può vedere nella tabella sotto, gli stati con il più basso tasso di innovazione si sono schierati in gran parte per Trump.
Ancora, esaminiamo quanti stati sono simultaneamente nella parte alta o medio-alta (dal 1° al 20° posto) di entrambe le classifiche. Come si può vedere nella tabella sotto, per Trump hanno votato 4 stati: il già citato Utah (stato ad alto tasso di innovazione), Texas, Michigan e North Carolina (tutti e tre stati a medio-alto tasso di innovazione). Per la Clinton, invece, hanno votato 14 stati (i già citati otto ad alto tasso di innovazione, più sei a medio-alto tasso).
Qui inizia a manifestarsi la saldatura tra l’America agrario-idrocarburica (Texas) con le sue propaggini a ovest (Utah) e a est (North Carolina), e la Rust Belt (Michigan). Il voto del Texas non sorprende: lo stato, che è il simbolo dell’America agrario-idrocarburica (il settore agrario e quello minerario, combinati, valgono il 9% del PIL), vota ininterrottamente repubblicano dal 1980. In ogni caso, è interessante notare come la Clinton abbia preso percentuali superiori a quelle di Obama nel 2012 in tutti e 4 i principali centri finanziari e tecnologici del Texas: Dallas (61% contro il 57% di Obama), Houston (54% contro 49%), San Antonio (55% contro 52%) e Austin (66% contro 60%).
Dello Utah, stato con una solida tradizione mineraria (che vale il 3% del PIL, ed è in crescita), si è già detto, mentre è interessante parlare della North Carolina, stato con un passato agricolo glorioso, e un presente industriale, ma che negli ultimi 10-15 anni si è orientata con più forza verso il terziario avanzato. Qui Trump ha ottenuto il 50,5% dei voti, contro il 50,4% del suo più sfortunato predecessore Mitt Romney. E anche se è vero che la Clinton ha preso meno voti di Obama, bisogna però anche notare come a Charlotte, uno dei maggiori centri bancari del paese, la Clinton sia stata capace di superare l’attuale presidente: 63% contro 61%.
Infine, il Michigan: come scrivevo il 7 novembre, in questo stato (uno dei meno innovativi tra gli stati a medio-alto tasso di innovazione: 16° nell’indice elaborato dal Milken Institute e 18° in quello elaborato da Bloomberg), vittima di una dura crisi non soltanto economica ma pure demografica, era una battaglia tra le paure e le speranze. Gli exit poll dicevano che la Clinton era in vantaggio, ma alla fine hanno vinto le paure, seppure solo per un soffio, e la rabbia verso un Partito democratico percepito (in parte a ragione) come troppo lontano e distante.
Ora esaminiamo per chi hanno votato gli stati presenti simultaneamente in una delle posizioni della parte bassa o medio-bassa (dal 31° al 50° posto) di entrambe le classifiche. Come si può vedere nella tabella, quasi tutti gli stati meno innovatori d’America si sono schierati con Trump, contro gli appena due a favore della Clinton.
Sintetizzando, ha vinto l’America petrolifera, mineraria, agraria, immobiliarista (lo stesso Trump è un immobiliarista miliardario, idem alcuni dei suoi più forti sostenitori). Quell’America agraro-idrocarburica, tanto per dire, che aveva tratto enormi benefici dall’elezione di Bush jr alla Casa Bianca nel 2000, e dalle sue politiche internazionali, finanziarie, economiche e anti-ambientali. E infatti, quando il texano lasciò la Casa Bianca nel gennaio 2009, la classifica Fortune 500 delle 10 aziende più grandi d’America includeva tre colossi del Big Oil. Scommettiamo che nella classifica Fortune 500 del 2020 ci saranno almeno 2 aziende minerario-energetiche, e almeno una legata al settore delle costruzioni?
3 Commenti
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interessante radiografia da un punto di vista a mio parere molto acuto.
Mannaggia, mi hai fregato l’articolo ma lo hai scritto meglio di quel che avrei fatto io. ne possono discendere alcune considerazioni sui contenuti di un nuovo modello conservatore dal sapore molto… antico.
Mannaggia, mi hai fregato l’articolo ma lo hai scritto meglio di quel che avrei fatto io. ne possono discendere alcune considerazioni sui contenuti di un nuovo modello conservatore dal sapore molto… antico.