America
Obama alla prova dell’Iran Deal
Nuove grane per Washington. Dopo il difficoltoso percorso che ha portato in luglio la Casa Bianca alla stipula con l’Iran di un accordo sul nucleare, ecco che sorgono i primi problemi nelle relazioni con Teheran. Problemi che minacciano poco piacevoli ripercussioni su un’amministrazione che ha fatto nei mesi passati proprio di questo trattato uno dei cavalli di battaglia della propria politica estera.
Casus belli si è rivelato una nuova normativa sui visti, recentemente approvata dal Congresso e ratificata venerdì dallo stesso Barack Obama. In sostanza, si tratta di un provvedimento volto ad attuare una restrizione sulla concessione dei visti necessari per entrare negli Stati Uniti: una restrizione che riguarderebbe cittadini (ma anche semplici visitatori) di Iraq, Siria, Sudan e Iran. Una legge esplicitamente redatta, per incrementare il livello della sicurezza nazionale, soprattutto a seguito delle stragi di Parigi e San Bernardino.
Sennonché Teheran non ha preso propriamente bene la cosa. Si sono difatti levate numerose proteste, che vedono in questo provvedimento una violazione del Nuclear Deal, configurandosi essenzialmente come un ostacolo al commercio e agli scambi tra Stati Uniti e Iran. Una sorta di riproposizione delle sanzioni comminate alla Repubblica Islamica nel 2006 e formalmente cancellate proprio dallo stesso Nuclear Deal. Senza poi contare come, fanno notare i critici iraniani, dalla black list risultino assenti paesi da sempre in ambiguità di rapporti con l’ISIS: a partire dalla Arabia Saudita. Laddove l’Iran, nel suo sciisimo, non potrebbe che costituire un nemico naturale del Califfato.
Queste proteste (farcite di accuse anti-israeliane) hanno suscitato un certo imbarazzo alla Casa Bianca. Che ora cerca di rimediare. Obama ha subito mandato avanti John Kerry, già protagonista delle lunghe trattative viennesi con Hassan Rohani fino quest’estate. E il segretario di Stato non ha perso tempo, sostenendo in una lettera al ministro degli esteri iraniano, Mohammed Javad Zarif, che da parte di Washington non vi sarebbe alcun intento punitivo o restrittivo nei confronti di Teheran: e arrivando quasi a far capire che si starebbe cercando una scappatoia per aggirare l’ostacolo.
I repubblicani non ci stanno e vanno all’attacco. Ed Royce, membro della Commissione Esteri alla Camera, ha dichiarato che Obama farebbe meglio a occuparsi delle attività terroristiche di Teheran e degli americani ancora prigionieri in Iran. Mentre il leader della maggioranza, Kevin McCarthy, ha dichiarato che il Congresso non possa cedere ai capricci di Teheran.
Questo incidente mette ancora una volta in luce il contrasto insito nell’attuale politica estera statunitense. Il problema dell’apertura obamiana all’Iran: un’apertura che vede nell’universo sciita un nuovo possibile partner per l’America. Un’apertura che il GOP di contro rifiuta, restando convinto che il khomeinismo non potrà mai rivelarsi un alleato veramente affidabile e che alla fine per battere il radicalismo islamista sia necessaria un’alleanza strategica con i settori del sunnismo moderato (dalla Giordania all’Egitto).
E la questione dei visti rischia a questo punto di indebolire ancora di più l’attuale amministrazione democratica. In questa situazione la Casa Bianca si trova difatti banalmente davanti a due strade: cedere all’Iran o sbattergli la porta in faccia. Due strade rischiose. Nel primo caso difatti non farebbe che rafforzare la posizione dei repubblicani, che avrebbero un motivo in più per tacciare il presidente di debolezza e assenza di polso. Nel secondo, si rischierebbe seriamente una rottura delle già precarie relazioni con Teheran: una sconfessione bruciante per la politica estera obamiana. Una sconfessione che potrebbe riverberarsi nella campagna per le presidenziali, favorendo i falchi conservatori.
E alla fine, il rischio è che Obama si abbarbichi al complicato equilibrismo cui ci ha abituato in questi anni. Un equilibrismo che, cercando di non scontentare nessuno, finisca col rivelarsi un naufragio in mezzo al guado.
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