America

Gli Stati Uniti, storia della decadenza di un Impero

14 Giugno 2015

Siamo davanti a una crisi sistemica di proporzioni enormi, ormai questo è evidente. Se solo dovessimo andare a ritroso di quindici o venti anni, nessuno avrebbe la previsione dello sconquasso – disarmonico, frammentato, ma comunque baciato da un effetto domino a larga scala- che negli ultimi tempi ci si è innalzato davanti agli occhi.

L’Europa vive di tensioni che credeva sopite, diretta com’era sul sentiero piastrellato di blu tracciato dal percorso unitario e onirico, una gigante illusione che vediamo sfaldarsi, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Nel 2015 gli europei riscoprono il concetto di dentro e fuori, di frontiera blindata, di “diverso” da accogliere o da cacciare, di ruoli e doveri posti su piani diversi tra paesi membri, tra cittadini assembrati e tra umani dissembrati. Il monopolarismo fittizio è durato finché ha potuto, finché le brame di chi si trovò a maramaldeggiare hanno incrinato definitivamente equilibri costruiti con l’apparenza. Nel 2007 a Lisbona sembravamo essere destinati a un futuro unico e senza distinzioni, dopo otto anni troviamo Francia e Inghilterra a litigare su Waterloo (battaglia del XIX secolo), Grecia e Germania discutere sui risarcimenti di guerra (1945).

L’area mediorientale è una polveriera come mai fino ad ora: bisogna tornare nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta per riuscire a paragonare una realtà simile. Allora la Guerra dei Sei Giorni (1967) e la successiva Guerra del Kippur (1973) avevano dato i definitivi crismi del caos alla mezzaluna fertile, collocandola in uno scontro di civiltà che oltrepassò definitivamente il mero contesto militare, mostrando la sua reale essenza all’opinione pubblica pasciuta.

Erano i primi anni dei Settanta. Gli Stati Uniti uscivano con le ossa rotte dalla Guerra del Vietnam, Nixon viaggiava a Pechino (1972) per quella che fu “una visita storica“. Gli statunitensi prima sulla Luna e poi a Pechino, nel giro di quattro anni. In mezzo, le ferite purulente dell’offensiva del Tet, di Ho Chi Mihn, del comandante Giap, e di quel Charlie tanto odiato, quello che usava canne di bambù e disdegnava ancora matite colorate.

In quel periodo gli Stati Uniti piombarono in una profonda crisi, dettata soprattutto dalla realizzazione di un’impossibilità nel produrre operazioni militari a larga scala. Il disastro vietnamita aveva puntato i fari sulla reale fragilità di un colosso dai piedi d’argilla, mentre la nomea del “liberatore” iniziò pian piano a scricchiolare soprattutto agli occhi di chi aveva già intuito quanto fosse pericolosa la deriva imperialista -che a conti fatti non ha mai conosciuto interruzioni, sin dai trascorsi europeii dei secoli addietro.

L’insegnamento prodotto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, immane genesi del disumano, progressivamente perdeva aderenza. La sua conclusione burocratica iniziava a mostrare crepe, sempre più nette. Negli anni Sessanta  l’Africa iniziava a ribollire, e i movimenti anticoloniali presero il sopravvento. Algeria, Nigeria, Sierra Leone, Congo, Mozambico, Angola. Dai Sessanta si scivolava rapidamente verso i Settanta, e le minoranze scaturite da ogni contesto e conflitto sociale (afroamericani, movimento femminista, ex coloni, realtà extraparlamentari, studenti universitari) assunsero toni molto aspri. Si era in balia del vento, e la cosiddetta “sindrome del Vietnam” sarebbe stata destinata a durare a lungo, più o meno fino al 1991.

Percorrendo dunque la linea pseudo-hegeliana -quanto mi costa dargli ragione- notiamo come la Storia  rappresenti qualcosa di ciclico. Alcuni dicono si ripeta prima come tragedia e poi come farsa, altri preferiscono rinunciare alle accezioni. La maggioranza, come al solito, dimentica.

La sindrome del Vietnam portò gli Usa a cambiare totalmente strategia politica e militare. Lo scotto pagato ad Hanoi e dintorni fu cocente e doloroso, si impose il National Security State di papà Kissinger, di cui raccontiamo in questo articolo, uscito qualche mese fa.

Finirono gli anni Settanta, entrarono gli anni Ottanta propri della loro realtà narcotizzante. Nel giro di un decennio pareva che tutte le zone calde del mondo potessero scomparire: niente più Guerra Fredda grazie al quartetto Wojtyla-Reagan-Thatcher-Gorbaciov, solidarietà a livelli mainstream verso l’Africa –“We are The World”, cantavano le popstar riunite in gare di solidarietà nell’era entusiasta del videoclip-, niente più tensioni tra Egitto e Israele grazie a Camp David, pace e prosperità per tutti, più o meno, arrotondando per eccesso.

A Los Angeles nel 1984 si iniziò a respirare aria olimpica sfarzosa, e il boicottaggio del blocco sovietico ormai in decadenza fu l’ultimo sgocciolo di una rivalità ormai fuori moda, quasi uno smacco in risposta alla sobrietà delle olimpiadi di Mosca di quattro anni prima (1980), che videro invece l’esclusione degli Usa. Nel 1988, a 9 mesi di distanza dall’insediamento di  George Bush alla Casa Bianca, iniziò la festa di Seoul: insomma tutti in Asia, Oriente e Occidente, ad attendere la caduta del Muro.

Questo perché la sindrome del Vietnam irradiava le sue ultime particelle, in attesa che si stabilizzasse un nuovo terreno su cui iniziare una nuova coltura. Nel 1991 l’Urss si sfalda, tutti gridano all’implosione, nessuno accenna all’esplosione. Punti di vista interni o esterni atti da sempre a marcare differenze e convogliare opinioni.

Il 1991 è anche l’anno dell’invasione militare del Kuwait, dell’operazione “Desert Storm”, e del ritorno statunitense in pompa magna, a recitare attivamente in un intervento bellico (quasi) completo che ormai mancava da sedici anni. Fu in quell’anno che le paure imperiali definitivamente scivolarono, tant’è che dal 1991 al 2001 il mondo parve quasi diventare una succursale del Paradiso. Certo, c’è stato comunque bisogno di dimenticarsi della Somalia, del Rwanda, della Jugoslavia. In fondo non tutto può essere perfetto, basta non calcare troppo la mano e tenere le tragedie sullo sfondo, ad alimentare soltanto gli sguardi più attenti, e a tenerli in gruppi sparuti e dispersi.

Il 2001 però sconvolse l’equilibrio: insieme alle Torri caddero anche i piedistalli dorati e le linee così nette tra passato e futuro, tra Bene e Male. Iniziò la campagna militare in Afghanistan, poi due anni dopo l’intervento -questa volta completo- in Iraq. D’altronde Eastwood ci ha fatto un film, sull’Iraq. Dodici anni dopo. Questo piccolo elemento può darci un quadro abbastanza preciso sulla linea sottile che lega la giungla indocinese al ricco deserto mesopotamico. Nel 2005 il Washington Post non andò leggero su Donald Rumsfeld, statunitense col nonno di Brema, ultraconservatore repubblicano e Segretario della Difesa  otto i due mandati Bush, nonché membro fondatore del PNAC (Project for the New American Century) insieme alla famiglia Bush (Jeb, George e George W.), all’ex presidente della Banca Mondiale Paul Wolfowitz, a Dick Cheney e ad altri deputati del ramo repubblicano conservatore. Il PNAC è un istituto di ricerca ritenuto fondamentale nella preparazione all’intervento in medioriente: “Quando Rumsfeld lascerà il suo ufficio al Pentagono – così il WP- sa che si lascerà alle spalle una sindrome Iraq ancora più gravosa – ossia la convinzione rinnovata, fastidiosa e talvolta paralizzante che ogni grande intervento militare statunitense all’estero è destinato al fallimento pratico e iniquità morale”

Rumsfeld in effetti poi lascerà quell’ufficio nel 2006, sostituito dall’ex(?) CIA Gates. Rumsfeld in effetti qualche giorno fa ha anche rilasciato un’intervista al Times in cui racconta come “l’intervento in Iraq fu sbagliato” e che addirittura “lui sapeva già che la prospettiva non era realistica”. Beh, meglio tardi che mai. Forse.

Sta comunque di fatto che l’Iraq per gli Usa è diventato un nuovo Vietnam, dalle conseguenze ancora più sconvolgenti. La paura di intraprendere nuovi pericolosissimi sentieri invisi all’opinione pubblica mondiale ha comportato un cambio di strategia, ossia un ritorno a un National Security State in salsa più social, con risultati alcune volte più fragorosi, e altre meno. In Iran nel 2009, ad esempio, ma già nell’Ucraina pacifica del 2004. Poi nel 2011 tutta l’area del Maghreb,  sconvolta da pseudo-rivoluzioni partite spontaneamente dalla Tunisia e poi convogliate per osmosi in Libia e in Egitto, determinando forti squilibri. Le bombe della NATO su Tripoli unite alla crisi (indotta?) siriana ci hanno consegnato una situazione drammatica, con migliaia di schegge impazzite e una situazione difficilmente controllabile su vari aspetti (sicurezza, immigrazione, controllo del territorio). L’Isis, cresciuto come una metastasi, sembra sguazzare beato in questo fiume sporco in piena. Barack Obama, spesso eccessivamente gravato di colpe non sue, ha evitato -con l’intercessione di Russia e Cina- l’irreparabile intervento in Siria, lasciando però una pericolosa scia a rappresentare l’altra faccia della medaglia, ossia la credibilità statunitense sempre più minata.

Insomma, questo è un mondo ancora abituato a giocare con la forza, ma in cui i soli muscoli non bastano più. Il sistema è in profonda crisi e c’è una strana sensazione, come se si fosse perso per strada il capo, come se la locomotiva, abituata a tracciare discutibili itinerari rimanendo però ben aderente ai binari, da qualche anno stia perdendo il controllo. La riluttanza di Obama in occasione della crisi siriana ha permesso al governo Netanyahu, a Turchia e Arabia Saudita di accrescere le loro consapevolezze e rivendicare i propri diritti nella zona, che in breve tempo è tornata la polveriera a cielo aperto degli anni Sessanta-Settanta. Sullo sfondo, la crescita del BRICS, la crisi dell’Eurozona e la creazione da parte della Cina, nell’ottobre 2014, della Banca Asiatica degli Investimenti e delle Infrastrutture (AIIB), disegnata come un contrappeso al FMI, ha ulteriormente compromesso la posizione statunitense. La AIIB unisce dunque BRICS e Shanghai Cooperation Organization (SCO), innalzandosi a conti fatti una nuova struttura finanziaria globale, alternativa al Fondo Monetario, alternativa a cui hanno già dato l’assenso una ventina di paesi, tra cui -pare- ci sia anche la Gran Bretagna. Ecco quindi che il futuro a stelle e strisce appare molto impegnativo, e sarà compito del nuovo presidente che uscirà nel 2016 far fronte a qualcosa che gli Usa non sono mai stati trovati a gestire, ossia un reale contrappeso di forze, più che una fittizia “caccia al lupo” andata avanti per decenni, in passato. Chi assumerà il comando a Washington dovrà far suo l’insegnamento di questi anni, ossia che l’unica forma di “permanenza” è data dalla “impermanenza”, “Anitya” in sanscrito, parola atta a descrivere il cambiamento e la trasformazione, a cui tutti dovremmo fare in modo di essere preparati.

 

 

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