America

“Vaffanculo”, e Trump conquista la Casa Bianca

9 Novembre 2016

Lo aveva detto. Il regista liberal Michael Moore lo aveva detto: «La vittoria di Donald Trump sarà il più grande “vaffanculo” della storia umana». E così è avvenuto. Il miliardario newyorchese ha superato il quorum dei 270 grandi elettori e ha conquistato così la Casa Bianca, smentendo mesi di previsioni avverse e sondaggi inclementi: è lui il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America.

Il popolo americano si trovava davanti a un bivio: uno dei più netti, decisi e radicali della sua storia. Da una parte, l’establishment politico-finanziario incarnato dalla figura di Hillary Clinton. Dall’altra, l’impresentabilità cialtronesca di una star televisiva agitata, contraddittoria, aggressiva ma considerata come l’unico strumento per picconare un sistema ormai odioso alla maggioranza dei cittadini americani. Un “vaffanculo” in piena regola, che spiega le ragioni intime del successo politico-elettorale del magnate newyorchese. Non è stata la razionalità, la linearità programmatica, la serietà professionale che gli elettori hanno cercato. Semmai un rigurgito possente, frammisto di rabbia e di protesta, questo è stato il voto degli statunitensi contro un sistema che hanno deciso di bocciare, infischiandosene di ogni possibile monito mediatico e politico.

Il divario tra le élite e il popolo è aumentato sempre di più: la classe media si è impoverita e la prospettiva centrista, tipicamente incarnata dalla Third Way della dinastia Clinton, è piombata improvvisamente nell’anacronismo: nel polveroso dimenticatoio della Storia. Un errore di valutazione madornale, quello di Hillary: ha puntato al centro, sperando di replicare la vittoriosa strategia che portò il marito, Bill, alla Casa Bianca nel 1992. Non ha capito che quella linea non poteva più reggere in una situazione politico-economica del tutto differente. Non ha capito che l’impoverimento progressivo della società americana avrebbe spinto gli elettori verso un voto di pancia. Non ha capito (o ha finto di non capire) che l’esperienza istituzionale oggi in America è vista – a torto o a ragione – come espressione odiosa di un establishment egoista e affamatore. Non ha capito che la rabbia in politica possa rivelarsi –piaccia o meno –  uno strumento infinitamente più potente del politically correct. Che la maggior parte dell’elettorato (anche di sinistra) non vuole sentirsi moralmente costretto a votare un candidato in base al sesso o al colore della pelle. Un elettorato che, messo alle strette davanti a un’alterativa improponibile come quella di quest’anno, non necessariamente vota per il candidato lindo e pinto: perché quando ti trovi nel dramma della disoccupazione e della miseria, te ne strafotti. E mandi tutto all’aria. Votando magari uno che spara stronzate demagogiche: cose che tutti pensano. Ma che lui però ha le palle di dire.

Come già preannunciato ai tempi delle primarie, Trump si è dimostrato capace di attrarre il voto degli elettori indipendenti ed indecisi, allargando un bacino repubblicano che si era via via sempre più ristretto negli ultimi otto anni. Una trasversalità che ha interessato anche le minoranze etniche, soprattutto quella ispanica: dopo mesi in cui gli analisti hanno sostenuto che i latinoamericani avrebbero automaticamente votato per Hillary Clinton, la realtà ha parlato diversamente, mostrando una quota elettorale complessa e articolata che – almeno in parte – si è schierata a favore del fulvo magnate (basti pensare alla Florida). Senza poi dimenticare il probabile ruolo dei giovani in sostegno del magnate (molti dei quali ex elettori di Sanders). Un altro elemento da sottolineare è poi la vittoria in Stati come Ohio e Wisconsin: Stati profondamente martoriati dalla crisi economica, in cui la classe media bianca si è progressivamente impoverita, cadendo in una condizione di rabbia e frustrazione. Alla pancia di questo elettorato, un tempo centrista e moderato, Trump è stato in grado di parlare, offrendogli una riscossa. Velleitaria? Utopica? Irrealizzabile? Forse. Ma efficace. Perché questa alla fine è stata la vera forza (e intelligenza) di Trump: capire dove soffiava il vento e seguire la corrente, al di là di astrazioni ideologiche e fuffa organizzativa. Un elemento che, di contro, la sua rivale non ha compreso.

Che cosa succederà adesso? Che cosa dobbiamo aspettarci da un’amministrazione Trump? E’ presto per dirlo. Riuscirà veramente ad attuare il suo programma economico protezionista, legato a una prospettiva isolazionista in materia di esteri? Difficile saperlo. Molto dipenderà dalle sue capacità politiche (tutte da dimostrare), senza poi contare l’incognita del Congresso, che potrebbe più o meno decidere di ostacolarlo. Dovremo aspettare quindi i prossimi mesi e, in particolare, bisognerà tener d’occhio la formazione della nuova amministrazione (a partire dalla Segreteria di Stato).

Infine, al di là di ogni polemica, mi sia concessa una domanda: ammesso che le previsioni elettorali siano sempre molto complicate da fare, come diavolo è possibile che per interi mesi frotte nutritissime di analisti e giornalisti (tanto americani quanto italiani) non abbiano fatto altro che preconizzare (non senza sicumera) un trionfo clintoniano che poi non si è minimamente verificato? Hillary doveva vincere perché era donna. Hillary doveva vincere perché era l’erede di Obama. Hillary doveva vincere perché era preparata. Hillary doveva vincere perché era presentabile. E si è visto come è andata a finire. Perché il problema è sempre lo stesso: succede di prendere cantonate colossali quando, anziché lasciarsi umilmente guidare dalla realtà dei fatti, si cerca invece di imporre loro interpretazioni astratte e preconcette. Perché Trump potrà anche non piacere ed è assolutamente criticabile. Ma la realtà va guardata in faccia. Negarla serve a poco. Manipolarla a niente.

Il popolo americano ha votato per un cialtrone? Sì: ha votato per un cialtrone. Ma se ha votato per un cialtrone, vuol dire che non ne poteva proprio più.

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