L’odierna firma della Trans-Pacific Partnership – l’accordo di libero-scambio fra Stati Uniti e altri 11 Paesi che si affacciano sul Pacifico (insieme fanno il 40% del Pil globale) – rappresenta un indubbio successo per l’amministrazione Obama: un successo, ottenuto attraverso tendenziosi ostacoli, molti dei quali rappresentati dall’opposizione condotta da ampie frange del suo stesso partito. Se per ora il presidente può quindi tirare un sospiro di sollievo in attesa della battaglia al Congresso, è inevitabile che questo evento finirà col produrre pesanti conseguenze all’interno del dibattito elettorale per le presidenziali del 2016. Non a caso difatti i malumori già circolano. E abbastanza astiosi, anche.
Innanzitutto troviamo il fronte populista. Un fronte che sta facendosi sempre più centrale, a destra come a sinistra, rappresentando per questo un dato di chiaro disturbo verso i candidati più moderati. Ed ecco quindi Donald Trump e Bernie Sanders risolutamente accomunati da una durissima critica nei confronti del TPP. Una critica sostanzialmente all’unisono, che denuncia l’accordo commerciale su un’articolata serie di questioni: un accordo che per loro produrrebbe un sistema di liberismo selvaggio, potenzialmente nocivo per l’industria americana e – soprattutto – per la tutela dei posti di lavoro.
Non a caso, tanto il fulvo magnate quanto l’arzillo socialista definiscono il trattato come “un disastro”, da respingere nettamente per la salvaguardia dell’economia statunitense. Una visione dunque fortemente improntata a logiche protezionistiche che Trump e Sanders mostrano di condividere pienamente e che sembrerebbe piacere alla pancia dell’americano medio.
Ma problemi possono sorgere anche dalle parti di Hillary Clinton. Notoriamente, dall’inizio di questa campagna elettorale, l’ex first lady ha cambiato idea su un imprecisato numero di questioni. Ha difatti abbandonato il suo storico centrismo (con cui si era presentata in occasione delle primarie del 2008), per una decisa virata a sinistra, nel tentativo di accattivarsi le simpatie delle ali dem più radicali: da erede politica del marito Bill (rappresentante di quella Terza Via che la sinistra non ha mai digerito più di tanto) si è messa oggi ad imitare Elizabeth Warren e lo stesso Bernie: non sembra – per ora – con chissà quale successo.
Anche in questo caso dunque, così come è accaduto per il same sex marriage o la guerra in Iraq, dovrà giustificare la sua giravolta: dapprima grande sostenitrice del TPP, che tra l’altro ricalca il modello del North American Free Trade Agreement, siglato dal marito nel 1992, se ne è poi difatti mostrata critica, scoprendosi all’improvviso zelante paladina dei lavoratori. Che dire? Dopo il socialista del Vermont che sogna la Casa Bianca, la first lady sindacalista mancava proprio.
Ma un’ulteriore conseguenza potrebbe riguardare Joe Biden. È più di un mese che circola la voce di una discesa in campo dell’attuale vicepresidente. E, appena poche ore fa, Politico riportava che dovrebbe candidarsi entro la fine di questa settimana. Ebbene, se così fosse, il TPP potrebbe rappresentare un problema. Per quale ragione? È presto detto.
Nel caso si candidasse, Biden non avrebbe una strada in discesa. Per quanto possa sfruttare la visibilità della sua attuale posizione e non sia al momento colpito da scandali, è pur vero che il personaggio è anagraficamente e politicamente vecchio: il simbolo di un partito che non sembra essersi riuscito a rinnovare, quantomeno in termini di ricambio generazionale (gli altri nomi che circolano per un’eventuale discesa in campo sono quelli di John Kerry e Al Gore, non esattamente un concentrato di gioventù).
A questo si aggiunga il fatto che Joe non si sia mai rivelato particolarmente abile in occasione delle competizioni per la nomination: si è presentato sia nel 1988 sia nel 2008, perdendo malamente entrambe le volte. Inoltre, il suo feudo elettorale è il Delaware che, per numero di delegati, risulta fondamentalmente inutile.
Ecco perché, secondo non pochi analisti, starebbe studiando la mossa di presentarsi in ticket con la popolare Elizabeth Warren: elemento che dovrebbe consentirgli una spinta in più, contendendo ampie quote elettorali tanto a Sanders quanto alla Clinton. Ed è proprio qui che si pone il problema: nel caso si candidasse, Biden non potrebbe non puntare che sul mostrarsi legittimo erede dell’amministrazione Obama: la stessa amministrazione che ha sponsorizzato e fortemente voluto quel TPP, duramente avversato dai sindacati e – soprattutto – dalla radicale Warren, che – come Sanders e ‘O Malley – l’ha più volte tacciato di liberismo selvaggio, guidando proteste e opposizioni al Congresso.
Il caso del TPP evidenzia allora un problema particolarmente profondo, che – sul fronte elettorale – preoccuperà verosimilmente più i democratici che i repubblicani. Se difatti questi ultimi sono maggiormente spaccati su tematiche come l’immigrazione, la questione del rapporto conflittuale col liberismo riguarda più da vicino l’Asinello. Un Asinello spezzato tra un filone centrista (primariamente rappresentato dalla New Democrat Coalition, un tempo fido esercito di Hillary Clinton) e uno radicale (protezionista e statalista, gravitante attorno alla figura di Elizabeth Warren, con propaggini populiste vicine a Bernie Sanders). Senza poi contare come nell’ambito dell’attuale corsa elettorale in casa democratica, il ramo centrista sembri al momento essere sottorappresentato: con il conseguente rischio che possa magari subire il fascino di un candidato repubblicano, collocato su posizioni moderate.
Un pericolo inquietante, dunque. Un’impasse che l’establishment democratico deve affrettarsi a risolvere, se non vuole restare in mezzo al guado: affogando nell’inazione e nel marasma ideologico.
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