Nikki Haley: l’asso dei repubblicani?
Misurata ma dura. Nella sua replica al discorso sullo stato dell’Unione, tenuto da Barack Obama il 12 gennaio scorso, Nikki Haley non si è mostrata clemente: evidenziando l’evanescenza di una speranza, esclusivamente fondata sulle fatue note del magniloquio e dell’accondiscendenza massmediale. E ci è andata giù pesante. Perché – nonostante le promesse faraoniche – l’economia stenta a crescere, il debito pubblico è aumentato e l’America appare sempre più sotto lo spettrale scacco della minaccia terroristica.
E la via da seguire è una sola: fregarsene una volta per tutte delle astrazioni intellettualoidi sulla crisis of confidence e costruire finalmente i presupposti per la fondazione di un nuovo sogno americano: restaurando il passato, per aprirsi al futuro. Da qui l’invito di Nikki a riconsiderare il valore intrinsecamente benefico dell’immigrazione: perché se è vero che gli Stati Uniti non possano più permettersi alcun tipo di lassismo sulla questione dei clandestini, è altrettanto chiaro che l’isteria patologica alimentata dai vari demagoghi non aiuterà certo l’America a ritrovarsi.
Un discorso reaganiano, quello di Nikki: che ostenta orgogliosamente le proprie origini indiane e sembra rievocare lo spirito del vecchio Ronald che – in maniche di camicia – davanti alla Statua della Libertà indicava non a caso nell’immigrazione (legale e meritocratica) il cuore fecondo del sogno americano. Un sogno che le sirene del populismo oggi vorrebbero abbattere, in nome di una grettezza ansiogena, simbolo di miopia e debolezza.
Perché alla fine questo è stato il discorso di Nikki: un discorso autenticamente repubblicano. Un discorso nel cui spirito hanno riecheggiato Lincoln e Roosevelt: uno spirito che guarda avanti, tutela le minoranze e non rincorre masochisticamente vessilli mortiferi di un passato che non gli appartiene. E difatti proprio lei, governatrice del South Carolina, dopo la sparatoria di Charleston diede ordine di ammainare la bandiera confederata posta sul palazzo del parlamento locale: mentre i big dell’elefantino si dividevano, tra complicati equilibrismi e improbabili richiami alla libertà statale. Dimentichi del fatto che quel simbolo di segregazione era stato il baluardo di figure come Wilson e Wallace.
E difatti non tutti sembrano aver gradito. Donald Trump la ha accusata di essere troppo blanda sulla questione dell’immigrazione, sospettando che dietro tutti quei riferimenti neppur tanto velati all’estremismo, il bersaglio fosse proprio lui. E Nikki ha confermato, ribadendo che, sì, con Trump il Partito Repubblicano sta trasformandosi in qualcosa di diverso: un ibrido tra il megalomane e il populistico che non c’entra nulla con la sua storia.
E adesso c’è chi già la dà come candidata repubblicana alla vicepresidenza. Come accennato, la governatrice del South Carolina, si colloca vicino al centro del partito: tendenzialmente liberista in economia e favorevole al taglio delle tasse, si configura abbastanza conservatrice sul fronte dei temi etici, pur restando lontana dai toni esasperati di certa destra radicale. Ha inoltre dimostrato di saperci fare con le campagne elettorali, avendo ottenuto un secondo mandato governatoriale nel 2014.
E’ ovviamente ancora presto per capire se sarà veramente lei la candidata alla vicepresidenza. Bisognerà prima difatti vedere chi vincerà la nomination repubblicana e – ad oggi – soltanto i candidati moderati (a partire da Jeb Bush) sembrano effettivamente averla in simpatia. Senza poi contare che la sua provenienza meridionale, dovrebbe almeno teoricamente essere bilanciata da un candidato presidente del Nord. Certo è che di frecce al proprio arco Nikki ne avrebbe: donna, giovane, moderata ma conservatrice, di origine indiana e soprattutto capace di comunicare un messaggio ispirato (caratteristica che la accomuna decisamente a Marco Rubio).
E comunque, nel caso risultasse lei veramente la favorita, sarebbe (limitandoci a democratici e repubblicani) la terza candidata donna alla vicepresidenza degli Stati Uniti, dopo Geraldine Ferraro nel 1984 e Sarah Palin nel 2008. Entrambe sconfitte. Ma si sa la ruota gira: la Ferraro era troppo inesperta e dovette scontrarsi assieme a Mondale contro la corazzata del ticket Reagan-Bush, mentre la Palin era troppo a destra e un po’ folkloristica: sempre impegnata a farsi fotografare col fucile in braccio e a paragonarsi a mamma orsa. Ma Nikki sembra un’altra cosa. E l’America di oggi potrebbe preferire un’indiana figlia di immigrati, a una ricca, potente e bionda principessa di Chicago.
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