America
Lo strano caso del signor bernie
Se nelle ultime settimane avete dato una letta a una qualsiasi “analisi” sulle primarie Americane è probabile che ne abbiate ricavato due impressioni fondamentali:
1) Donald Trump rischia di essere il candidato del partito Repubblicano.
2) Hillary Clinton è la candidata del partito Democratico.
Di Donald Trump si è detto molto, e molto altro si dirà nelle settimane a venire. Di Hillary invece si è detto meno, perché la sua candidatura a Presidente degli Stati Uniti appare come una certezza granitica, una semplice formalità che attende solo di essere ratificata a causa di quel guazzabuglio di norme astruse che regolano le primarie Americane (dove, sia detto per inciso, se ti beccano a offrire un euro per votare fuori dal seggio ti sbattono dentro e gettano via la chiave).
I numeri, però, raccontano una storia molto più incerta. Ad oggi, 14 marzo 2016 ore 20:19, Hillary Clinton dispone del 28,4% dei delegati necessari a vincere la nomination, ovvero 677 su 2,378. Il suo avversario, Bernard “Bernie” Sanders da Brooklyn, anni 74 e una straordinaria somiglianza con il comico Larry David, ne ha 478.
Forse qualcuno ha letto numeri diversi, numeri che accreditano Hillary di un numero di delegati superiore, tipo 1,200 o giù di lì. Questo secondo conteggio, però, è un conteggio molto teorico: tiene conto dei cosiddetti “superdelegati” ovvero i nominati a vario titolo direttamente dal partito, che in quel di Cleveland, alla convention finale, eleggeranno il candidato che se la vedrà con il competitor Repubblicano.
Vero: di questi superdelegati, l’85% ha espresso, alcuni ufficialmente altri molto informalmente, un appoggio per Hillary. Ma questo conta assai poco.
Proprio come nelle Primarie alla matriciana di casa nostra, anche in America esiste un candidato dell’establishment, ovvero un nome espresso direttamente dai vertici del partito (tipo Beppe Sala a Milano, sostenuto da assessori, premier, imprenditori, eccetera) che si scontra con i cosiddetti underdogs, ovvero i candidati che si presentano per conto loro, a volte contando sull’appoggio di pezzi di apparato, a volte – è il caso di Sanders – solo sulle proprie forze (tipo Pierfrancesco Majorino a Milano, sostenuto dalle sue Superga usate).
Ma l’establishment, si sa, va dove lo porta il portafoglio. E quando realizza che il cavallo su cui punta è un cavallo azzoppato, non ci pensa né uno né due ad abbatterlo e a saltare fsul carro del vincitore (“jump on the bandwagon”). E’ successo spesso in passato, e soprattutto è successo nel 2008, a danni di un politico che di nome fa Hillary Clinton che, all’inizio della campagna, contava sull’appoggio del 92% dei superdelegati. Appoggio che però perse nel giro di una notte a vantaggio di un fino a poche settimane prima sconosciuto Barack Obama.
Come mai, allora, l’Hillary Clinton 2016 è accredita di un vantaggio monster quando è proprio l’Hillary Clinton del 2008 a mostrare quanto effimero sia un vantaggio basato sui superdelegati?
In rete gira da mesi una teoria: visto che i grandi media americani sono stati per anni foraggiati dai Clinton, e visto che a loro volta, sono proprio quei network ad essere tra i principali finanziatori della campagna di Hillary, Sanders sarebbe vittima di una specie di complotto che punta ad azzopparne il momentum, a farlo apparire come un perdente e a convincere chi deve ancora votare a farlo per Hillary – stante l’indole americana a innamorarsi perdutamente dei vincenti.
All’inizio pareva un’altra di quelle strampalate teorie del complotto buone per scaldare l’animo della solita compagnia di allocchi.
E invece dal primo dibattito di agosto al Super Martedì, a Sanders sui media americani è stato dato lo stesso spazio che si darebbe oggi a Ugo Intini sul catalogo di Yamamay: nessuno. La Clinton, la Clinton, sempre e solo la Clinton, con i nostri giornaloni a ripetere esattamente le stesse cose (“Hillary continua la sua corsa solitaria” è il titolo del Corriere dopo il Super Martedì).
Poi però, una settimana fa, Sanders, che nei sondaggi è dato 15 punti sotto, vince in Michigan, uno Stato tra i più importanti e strategici di tutta l’Unione. In rete, i complottisti festeggiano: il successo di Sanders è anche il loro*.
La grande stampa Americana invece, quella che ci ha sempre guardati con la stessa misericordia e commiserazione che noi, in gita a Varanasi in India, riserveremmo per i paria che si tuffano nel fiume Gange lasciandosi affogare, finisce nell’occhio del ciclone: dopo lo sberlone preso su Trump – per loro un joke che sarebbe sparito in autunno – ora hanno anche il problema dell’inossidabile Bernie, che di lasciar andare avanti la Clinton proprio non ne vuole sapere, e anzi ha almeno tre buone ragioni per crederci, visto che:
1) La Clinton vince negli Stati a maggioranza afro-americana: di Stati di questo tipo ne mancano due. Negli altri, il profilo demografico è favorevole a Sanders.
2) L’argomento preferito della Clinton, “alle Presidenziali, io sono in grado di attirare più voti di lui perché sono moderata”, ha perso ragione di esistere. La Clinton per rubare voti a Bernie ha virato a sinistra di brutto, alienandosi i voti del centro. Nei dieci Stati dove in settimana hanno testato chi, tra Sanders e la Clinton, performa meglio contro Trump, Sanders ha battuto la Clinton in nove Stati su dieci.
3) Nonostante la fretta dei media di metterle in testa la corona di alloro, la gara tra i democratici è ancora lunghissima: ben tre mesi (ovvero un quadrimestre fiscale, per parlare il linguaggio di chi le campagna le finanzia) ci separano dalle primarie in California, in termini di delegati le più importanti. E se guardiamo al trend, è evidente come Sanders – che sei mesi fa era dato al 3% sul territorio nazionale e ora è almeno al 45% – sia in netto recupero.
Certo la sfortuna ha giocato contro il Senatore del Vermont: il primo caucus perso con le monetine, la strettissima sconfitta in Massachusetts (dove lo scarto è stato uguale a quello Sala-Balzani, con i votanti moltiplicati per venti), il calendario delle votazioni che, al contrario di quanto avvenuto con Obama, lo ha penalizzato (perché sempre per la tendenza ad accodarsi al vincente, Obama approfittò del voto afro-americano del Sud che ovviamente vinse con percentuali bulgare, divenne fenomeno mediatico, prese l’appoggio di alcuni superdelegati e da li spazzò via la Clinton in un amen). Ma la partita è lontana dall’essere chiusa.
Oggi, 15 marzo, siamo di nuovo davanti a uno snodo cruciale. I media parlano della Florida come lo Stato della resa dei conti e guarda caso la Florida, buen retiro golfistico dei miliardari dell’East Coast – marito Bill incluso – è solida roccaforte dei Clinton. Tuttavia, nessuno dice che se Sanders dovesse perdere lo Stato del Sole ma vincere nel Mid-west, in Illinois e Ohio (uno stato, questo, di cui come al solito sentirete molto parlare a novembre) la situazione sarebbe addirittura migliore.
Poi, va da sé, che davanti a un cappotto di Hillary nei tre stati chiave di questa tornata, neppure il più romantico degli hippie di San Diego potrebbe realisticamente sperare in una vittoria di Sanders.
Ma il tema di fondo rimane: il racconto alterato che i media hanno restituito di una corsa che ad oggi – domani chissà – risulta ancora apertissima.
*Nel meme creato dai sostenitori di Sanders, Wolf Isaac Blitzer, principale anchorman della CNN (appare anche nella quarta stagione di House of Cards) che nell’ultimo mese ha definito “devastante” ogni sua sconfitta. Talmente devastanti che ha vinto in Michigan.
Devi fare login per commentare
Login