Agricoltura

Rinnovo del pesticida glifosato, i mille rinvii di un’Europa divisa

9 Giugno 2016

L’Europa non riesce a prendere una decisione sul glifosato. La sostanza, alla base di moltissimi pesticidi in commercio, sta attraversando il processo di revisione con cui la Commissione Europea aggiorna l’autorizzazione per le sostanze chimiche oppure la ritira, in caso siano emersi possibili effetti collaterali per le persone o per l’ambiente. Si tratta di una procedura di routine, ma il dibattito sul glifosato si è gonfiato fino al punto da far fallire ben tre sessioni di voto negli ultimi tre mesi. In nessun caso il Comitato permanente Ue su piante, animali, alimenti e mangimi, incaricato della decisione, è riuscito a raggiungere una maggioranza qualificata, cioè un parere compatto del 55% dei 28 Stati membri, che deve anche rappresentare almeno il 65% della popolazione europea. E questo nonostante le contrattazioni avessero già portato a una riduzione della durata dell’autorizzazione, prima dai consueti 15 anni a 9 anni e infine a un rinnovo provvisorio di 12-18 mesi, che comunque non è stato votato dagli Stati membri nell’ultima sessione di lunedì 6 giugno.

La ricerca di una maggioranza ha assunto le sembianze di una corsa contro il tempo, visto che il 30 giugno scade l’autorizzazione del glifosato, per cui se non viene riapprovata, i prodotti che lo contengono dovranno essere ritirati dal commercio in tutta l’Unione Europea.

Il ripetuto fallimento del voto in Commissione arriva dopo mesi di mobilitazioni da parte della società civile e dei movimenti ambientalisti contro il glifosato, con una una petizione che ha raggiunto quasi un milione e mezzo di firme. Se dal punto di vista dei cittadini la diffidenza verso il glifosato riguarda principalmente i rischi per la salute, dal punto di vista politico ed economico la materia del contendere va oltre il solo glifosato e implica inevitabilmente un più ampio dibattito sugli organismi geneticamente modificati, visto che la maggior parte delle sementi ogm sono progettate proprio per resistere al glifosato, dunque pensati (e venduti) come elementi di uno stesso metodo agricolo. E come sappiamo gli ogm sono una delle principali ragioni di attrito tra USA e Europa nelle contrattazioni sul TTIP.

Ma cos’è il glifosato? È il pesticida più utilizzato al mondo, prodotto dalla Monsanto e commercializzato dalla stessa Monsanto con il nome di Roundup, oltre che da altre industrie agricole, come Syngenta e Dow. Introdotto nel 1974, il suo uso è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 20 anni, per due ragioni. La prima è che a partire dagli anni Novanta la stessa Monsanto ha iniziato a introdurre piante ogm resistenti agli erbicidi, sopratutto mais e soia, che quindi riuscivano a tollerare quantità maggiori di diserbanti chimici. Così, se nel 1987 gli Stati Uniti distribuivano sui loro campi 5 mila tonnellate di glisofato all’anno, oggi ne usano circa 136 mila tonnellate. Anche perché, come naturalmente accade, nel frattempo si sono sviluppate delle erbacce più resistenti che hanno bisogno di maggiori quantità di erbicida per essere estirpate. E la crescita è destinata a continuare perché più resistenti si fanno le erbacce, più pesticida si dovrà utilizzare, più resistenza svilupperanno le nuove erbacce e via di seguito.

A incoraggiarne ulteriormente l’uso ci ha pensato la U.S. Environmental Protection Agency che ha ammorbidito le sue regole circa la quantità di glisofato considerata sicura, tanto che oggi è considerato sicuro distribuire sui campi 50 volte tanto la quantità che era concessa nel 1996.

In Europa il glifosato viene usato meno, e principalmente per la fase di diserbo prima della semina, anche perché abbiamo molte meno coltivazioni ogm: più della metà degli Stati, tra cui l’Italia, ne hanno vietato la coltivazione in campo aperto e comunque c’è l’obbligo di esporre la presenza di ogm in etichetta, cosa che inibisce la loro diffusione. Ciò nonostante alcuni studi hanno trovate tracce di glifosato nel pane inglese, nella birra tedesca, nelle urine di cittadini europei e anche in quella di 48 eurodeputati che si sono volontariamente sottoposti al test. E in Italia il glifosato (e il suo metabolita AMPA) è il pesticida i cui residui sono rilevati più spesso nelle acque superficiali, secondo i dati ISPRA 2016.

Malgrado i timori nella popolazione siano molto diffusi, dalle istituzioni non è ancora arrivato un messaggio chiaro sui rischi connessi al glifosato. Nel corso dell’ultimo anno sono usciti tre report ufficiali, che vuoi per metodi diversi, vuoi per corpus di analisi diversi, hanno dato risultati ben poco allineati.

La IARC (International Agency for Research on Cancer) già l’anno scorso aveva classificato il glifosato come “probabile cancerogeno”. Dire “probabile” per la IARC vuol dire che ci sono sufficienti evidenze di carcinogenicità sugli animali da laboratorio e limitate evidenze di carcinogenicità sugli esseri umani. “Limitate evidenze” a sua volta significa che è stata registrata un’associazione tra esposizione alla sostanza e insorgenza di cancro, ma che non possono essere escluse altre cause o concause. Inoltre, secondo la IARC, il glisofato è un interferente endocrino, cioè altera la funzionalità del sistema ormonale. La IARC arriva a queste conclusioni nel marzo 2015, in base a studi fatti negli ultimi 15 anni in USA, Canada e Svezia, studi che considerano sia l’esposizione per via aerea, cioè ad esempio respirando l’aria intorno a un campo trattato con il pesticida, sia l’esposizione tramite i residui in cibo e acqua. Le critiche che in seguito sono state mosse ai risultati della IARC riguardano il fatto che i suoi metodi identificano le sostanze che possono causare il cancro, senza tenere in considerazione i livelli di esposizione.

A Novembre 2015 l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha contraddetto l’opinione della IARC concludendo che “è improbabile che il glisofato sia genotossico (cioè danneggi il DNA) o cancerogeno per gli esseri umani”. La posizione dell’EFSA è stata fin da subito molto criticata dalla comunità scientifica, che ha evidenziato in particolare come la ricerca si basasse sull’inclusione di sei studi finanziati dalle industrie produttrici di glisofato, riunite sotto il nome di Glyphosate Task Force, alcuni dei quali non pubblicati su riviste scientifiche. In seguito 96 scienziati internazionali firmarono una lettera aperta per invitare a non tenere in considerazione il parere dell’EFSA, definendolo poco credibile e frutto di una procedura poco trasparente.

Infine, il 16 maggio, un panel amministrato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla FAO ha concluso che “è improbabile che il glifosato causi il cancro attraverso l’esposizione alimentare”, cioè tramite i residui dentro acqua e cibo. Il Joint Meeting on Pesticides Residue (JMPR), questo il nome del panel, si è riunito a Ginevra dal 9 al 13 maggio e ha stabilito una dose accettabile (cioè non nociva) di “ingestione quotidiana” di glifosato, pari a 1 mg per kg di peso corporeo. Un parere diverso da quello della IARC dunque, nonostante il fatto curioso che la IARC sia una branca all’OMS. È utile però specificare che quest’ultima analisi ha preso in esame soltanto l’esposizione tramite alimenti e non ad esempio l’esposizione per inalazione a cui possono essere esposti gli agricoltori o chi risiede nelle vicinanze dei campi trattati. Anche in questo caso si sono levate proteste, mosse da Greenpeace e riportate dal Guardian, in merito a un possibile conflitto di interesse, perché due dei ricercatori che hanno partecipato al panel con ruoli di coordinamento provengono da un istituto che ha ricevuto nel 2012 donazioni milionarie da parte di Monsanto e altre agroindustrie produttrici di glifosato.

Un quarto report è atteso per il 2017: è quello dell’Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche (ECHA) e potrebbe rimettere in discussione lo stato dell’arte sui rischi del glifosato, nonché le eventuali decisioni già prese dall’Europa.

L’ambiguità scientifica sulla materia sembra così essersi tradotta nell’indecisione degli Stati europei. Fonti interne alla Commissione e riportate da Politico e WSJ affermano che nella sessione del 6 giugno la ri-autorizzazione del glifosato è stata votata da 20 Stati, ma alcuni degli stati popolosi si sono astenuti, facendo fallire il raggiungimento del 65% di popolazione europea rappresentata. Gli astenuti, cioè Francia, Germania, Italia, Grecia, Austria, Portogallo e Lussemburgo, rappresentano da soli il 47% della popolazione europea. Malta è l’unico stato che ha votato contro. Francia e Germania, che hanno il peso maggiore in termini numerici e anche politici, sono state orientate al “no” lungo tutto il processo di revisione. In particolare la Francia si è detta contraria sin da subito, promettendo di ritirare i prodotti contenenti glifosato dal mercato anche se la Commissione dovesse infine approvare.

Un ulteriore fattore di politicizzazione del voto arriva dal rischio Brexit: in Gran Bretagna infatti il glifosato viene usato in modo massicio e la mancata ri-autorizzazione è molto temuta dall’industria agricola nazionale, che rischia di spostarsi a favore dell’uscita dall’Unione Europea. Ora il caso vuole che il referendum sulla Brexit sia il 23 Giugno, 7 giorni prima che scada definitivamente l’autorizzazione al commercio del glifosato.

Entro il 30 giugno la Commissione Europea deve prendere una decisione. Fino ad allora possono succedere due cose: la Commissione Europea può affidare il voto ai comitati di appello, una procedura che potrebbe velocizzare la decisione in vista della scadenza, ma che non dà certezze di raggiungere una maggioranza qualificata. Oppure può decidere autonomamente, senza cioè il supporto degli Stati membri. La terza via è che nessuno faccia più niente fino al 30 Giugno, l’autorizzazione del glifosato scade e nei mesi successivi i prodotti che lo contengono dovranno essere ritirati dal mercato europeo: una prospettiva che sta mandando in fibrillazione le industrie americane coinvolte.

Restano dunque poche settimane per prendere una posizione. E gli argomenti sul tavolo sono molti: c’è il principio di precauzione circa i rischi sulla salute, c’è da fare un grande riflessione sulla tutela della biodiversità, così come della competitività dei produttori. Tenendo bene in conto che ogni decisione potrebbe non essere l’ultima parola. Se pensiamo per un attimo al peggio, cioè prendiamo per buona la versione della IARC, e facciamo una ricognizione storica: col DDT le denunce da parte degli scienziati iniziarono alla fine degli anni 40, per arrivare a un divieto per l’uso agricolo negli USA nel 1972 e in Italia nel 1978. I residui di DDT vengono rilevati nelle acque superficiali italiane ancora oggi.

 

Foto di copertina: Chafer Machinery via Flickr (CC BY).

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